Quando conobbi Eziolino….

Racconto di Cristiano Tassinari 

Ho avuto il piacere di conoscere Eziolino Capuano nella sua avventura più a Nord. Anzi: nella sua unica esperienza su una panchina di una squadra del Nord Italia: il Modena.
A dire il vero, Eziolino era già stato ben più a Nord, molto più a Nord: addirittura in Belgio, allenatore dell’Eupen. Ma quella è un’altra storia (durata poco e finita male).
Per quel che mi riguarda, nella stagione sportiva 2016-2017 ero il cronista di Tvqui, emittente regionale ufficiale del Modena FC. Era un Modena scalcagnato, ormai al tramonto della poco gloriosa epopea del patron Antonio Caliendo, un tempo il Re dei procuratori, nonché inventore della stessa stimata professione. 
È un Modena che annaspa nei bassifondi della classifica di Serie: dopo un brutta sconfitta a Santarcangelo di Romagna per 2-0, l’allenatore Simone Pavan viene sollevato dall’incarico, un modo elegante per dire che viene esonerato. E, al suo posto, il “vulcanico” Caliendo non ha dubbi: tocca ad Eziolino Capuano! Rimaniamo tutti esterrefatti: nell’immaginario collettivo, infatti, Eziolino sembra inevitabilmente un allenatore-macchietta, poco più di un Oronzo Canà, legato indissolubilmente al girone C della Serie e alle squadre del Meridione. Inoltre, Capuano si porta dietro un personaggio-alter ego con cui sembra complicato poter convivere in una piazza passionale ed esigente, ma con i piedi ben piantati per terra, come Modena. 
Fin dalla presentazione ufficiale e dalle prime interviste e dichiarazioni, scopriamo quanto i pregiudizi e le etichette facciano del male anche nel dorato mondo del pallone. Del resto, anche Eziolino sa che il Modena è una bella occasione, una bella vetrina, un po’ più visibile del solito. Le sue parole sono misurate, il suo atteggiamento sobrio, le sue giacche elegantissime.
La squadra è quella che è, ma qui interviene lui. Grande tattico e grande motivatore. Non lo sapevamo: ora lo sappiamo. 
La sua prima partita da allenatore del Modena la gioca su un campo ostico, a San Benedetto del Tronto, contro la Sambenedettese. È il 4 dicembre 2016. Ha dato una raddrizzata tattica all’Armata Brancaleone che si era ritrovato fra le mani, rispolvera e rilancia giocatori ammuffiti in panchina, motiva altri a dare il meglio di sé per il bene della loro carriera (uno di loro, l’esterno romeno Stefan Popescu si trasformerà in un’iradiddio e strapperà un contrattone quadriennale alla Salernitana!).
Buona prestazione al “Riviera delle Palme”, ma tempo due minuti del secondo tempo e la Sambenedettese passa in vantaggio con un gol del bomber Mancuso. Eziolino non demorde e riorganizza la sua squadra e dopo dieci minuti, il Modena pareggia: schema su punizione, interessante, intelligente, imprevedibile e mai visto prima, difesa della Samb in bambola e Modena pareggia con il gol di Simone Basso. 
Per larghi tratti del match, i Canarini di Eziolino Capuano sono padroni del campo, noi in tribuna a stropicciarci gli occhi. 
Solo incidentalmente il Modena non porta a casa l’intera posta: ma è come se Capuano avesse vinto e rivitalizzato la squadra e l’ambiente.
Da lì in avanti, la rinascita della squadra è graduale e continua, inanellando risultati positivi e atteggiamenti da vero condottiero, che fanno di Eziolino Capuano “uno di noi” per i tifosi della curva del Modena, intitolata alla memoria dell’ex presidente Gigi Montagnani, l’ultimo ad averli portati in A. 
Ogni domenica, in panchina e in sala stampa, Eziolino sfoggia giacche sempre più eleganti e sciccose, il genere “tweed” è il suo preferito. Con il dolcevita granata e pochette abbinata o con una fluorescente cravatta arancione.
Visto anche, a bordo campo, con la camicia bianca, la cravatta rossa, il gilet nero a fil di pancetta e le calze rosse. Un mito. 
Lo spogliatoio stavolta non ribolle, è dalla sua parte, e i risultati pure. Se in conferenza stampa gli scappa la famosa “scrofa assatanata” è solo per non deludere il suo pubblico, a cui non bisogna far mancare l’atteso momento di show del “gemello scemo”, come dice lui. Mai mi era capitato di intervistare un allenatore con gli occhiali da sole a specchio nella penombra invernale dello sgabuzzino-stampa di Bassano del Grappa, dopo una vittoria, ma poi ti dice “Tassinari, ho una cosa agli occhi, preferisco tenere gli occhiali” e lo dice con un tale candore che non puoi non cominciare a volergli bene, a Eziolino.
E continuo a volergli bene anche quando, dopo una sconfitta, mi sbotta in faccia: “Tassinari, lei fa sempre le stesse domande!”
Vero e verace. 
Mi vanto, altresì, di aver conosciuto e frequentato Mister Capuano anche fuori dai rettangoli di gioco e dalle sale interviste. Al lunedi sera conducevo il classico programma del giorno dopo la partita, come fanno tutte le tv del mondo, e spesso ho avuto ospite in studio Eziolino Capuano. 
Essendo l’emittente ufficiale del Modena FC avevamo diritto alla saltuaria presenza dei tesserati, ma alla fine veniva sempre lui. Prima della diretta era cosi: simpatico, cordiale, gentile, istrionico, si poteva chiacchierare di qualunque cosa, dal calcio alle crisi internazionali nel mondo, dalla situazione economica agli eventi culturali. Poi, implacabile, si accendeva la luce rossa della telecamera con la scritta “On air” e lì cominciava lo spettacolo del “Capuano personaggio”, sempre pronto a rispondere, con il “suo” spirito, alle telefonate dei tifosi da casa, con un sorriso a stemperare ogni tensione.
Ricordo che una sera cenammo, insieme a Caliendo, nell’elegante appartamento dei proprietari della tv, e Eziolino fece la parte del mattatore, discettando con competenza persino di quadri e pittori, di impressionisti e dadaisti. Altro che gli schemi su palla inattiva e la tattica del fuorigioco…
In occasione di una di queste serate “dietro le quinte”, Eziolino Capuano mi disse una frase che mi è rimasta impressa, per la semplicità e la voglia di riscatto che vi era inserita dentro: “Nella mia famiglia in tanti hanno studiato e fatto una bella carriera: mio padre era professore universitario, uno dei miei fratelli è medico, l’altro è un manager di successo: ma quello più famoso sono io!”
L’orgoglio del “vate di Pescopagano”.
Poi, lo ricordo bene, lo accompagnai fuori, era un freddo lunedì sera d’inverno dopo una trasmissione, e lo vidi “arrampicarsi” a fatica sul sedile alto della sua Jeep Renegade bianca, pronto a partire per mille nuove avventure. 
Che io, da allora, seguo sempre, con grande simpatia nei confronti del Grande Eziolino.

Quella telefonata di Rino Tommasi…

Se n’è andato Rino Tommasi, storico telecronista di tennis e pugilato. Ma era molto di più (per anni aveva fatto l’organizzatore di incontri di boxe).
Veronese, classe 1934, avrebbe compiuto 91 anni il prossimo 23 febbraio.
Con Gianni Clerici ha formato per lungo tempo la più affiatata, competente ed elegante coppia di telecronisti di tennis.
Per un periodo, Rino Tommasi fu anche direttore di Tele+, la tv a pagamento “antenata” di Sky: nel periodo in cui vi collaborai anch’io, lo vidi a Cologno Monzese alcune volte e mi telefonò (sul numero fisso di casa!) un lunedi sera per farmi i complimenti per una telecronaca che avevo fatto alla domenica (Ancona-Salernitana 3-3: 30 novembre 1997).
Oltre 27 anni fa…
Di quella partita, commentata sotto un diluvio universale allo Stadio “Del Conero” di Ancona (mi portai in cabina pure l’assistente Robi Masca…), ricordo con piacere le doppiette di Petrachi e Di Vaio, il pareggio di “Ciccio” Artistico al 93′, l’abbuffata di fine partita in un ristorante di Ancona (mi sfugge il nome!), il ritorno di sera in autostrada sotto la pioggia (senza asfalto drenante!): la ciliegina sulla torta fu proprio la telefonata del giorno dopo di Rino Tommasi.
Un grande signore, della tv e della vita.

Lascia andare ciò che pesa…

Prima di chiedere aiuto al 2025:

Lascia andare ciò che pesa: il mondo è già abbastanza difficile da portare.

Cammina con lentezza, non per paura del tempo, ma per assaporarlo.

Non cercare chi non ti cerca: la bellezza si trova dove sei atteso.

Custodisci il silenzio, perché lì abitano le risposte che contano.

Proteggi i tuoi sogni come fari nella nebbia; non lasciarli spegnere.

Abbraccia chi ami senza riserve: l’amore non va mai dosato.

Fai spazio al dolore, ma non costruirci una casa.

Non inseguire il consenso, cerca invece la verità.

Osserva la vita come se fosse la prima volta, ogni volta.

Quando cadi, cadi bene: il terreno sa accogliere chi si rialza.

Ama la tua fragilità: è lì che si nasconde la tua forza.

Non vivere di domande, ma di meraviglia.

Sii un ponte per chi ha paura di attraversare.

Abbi il coraggio di fermarti, anche quando il mondo ti spinge a correre.

Non temere la solitudine: spesso è la stanza in cui ti ritroverai.

Parla solo se ciò che dici è più bello del silenzio.

Raccogli le tue cicatrici: sono mappe che ti hanno portato fin qui.

Perdona, ma non dimenticare di proteggerti.

Offri gentilezza senza aspettarti nulla in cambio: è il dono più puro.

Non cercare di aggiustare tutto: alcune cose vanno lasciate libere di rompersi.

Guardati allo specchio con occhi nuovi: sei già abbastanza.

Non temere di perdere: spesso, è così che si vince.

Cerca la bellezza nei dettagli: è lì che la vita si nasconde.

Non aspettare il momento perfetto: la perfezione è un’illusione.

Impara a chiedere aiuto senza vergogna: nessuno vive da solo.

Tieni vivi i tuoi stupori, perché la meraviglia non ha età.

Non lasciare che la paura decida per te: è un pessimo consigliere.

Fai della gratitudine un’abitudine, non un evento straordinario.

Sii il custode del tuo tempo: è l’unica ricchezza che nessuno può restituirti.

E alla fine, ricorda: la vita non è un elenco di cose da fare, ma un’arte da vivere.

(Andrew Faber)

Grazie, mitico GPO!

È stato un piacere condividere con il grande giornalista Gian Paolo Ormezzano attimi di racconti, di aneddoti, di sport, di cibo e vino, di convivialità, di buon vivere, di cultura, di ironia, e persino di “bocce quadre”, manifestazione che organizzava a Castellinaldo, nel Roero, nel cuore del Piemonte.
Sarò sempre grato all’altrettanto grande Darwin Pastorin per avermelo presentato. 
Rip.
P.s. Gian Paolo Ormezzano (GPO per gli amici) raccontava sempre di essere stato il primo cronista ad arrivare a casa di Fausto Coppi, il 2 gennaio 1960.

QUELLA MEMORIA A CUI SFUGGONO I DETTAGLI

Qualche giorno fa un conoscente mi dice: “Ti ricordi quella volta che siamo andati a Trebaseleghe a fare la telecronaca di pallavolo”?
No, non mi ricordavo.
Si, mi ricordo che attorno al 1995-96-97 – quasi 30 anni fa! – ho fatto anche il telecronista di categorie minori di pallavolo, ma ho completamente dimenticato di aver fatto quella trasferta.

Trebaseleghe, paese in provincia di Padova con “tre basiliche” [da cui deriva il nome], mi dice qualcosa: il commento a quella partita contro l’allora Italkero Modena l’ho fatto sicuramente, Trebaseleghe è un nome che non si dimentica, ma pensavo di aver fatto la telecronaca da studio, come avviene spesso. Invece, nel ridente paesello padovano ci andai veramente, a quanto dice il testimone oculare.
Ricordo vagamente una palestrina (ma c’ero davvero o erano le immagini video?) e assolutamente nient’altro. Niente del viaggio, niente dell’eventuale pranzo o cena, niente della compagnia di quel giorno. Tutto rimosso.

Si tratta di un episodio talmente insignificante della mia vita da meritare di essere completamente dimenticato? Mi sembra di no, eppure…
Poi ho fatto una controprova: ho guardato vecchie foto (che sono un toccasana per i ricordi), che mi hanno fatto ricordare, viaggi, persone, incontri, situazioni…
Di alcuni di questi episodi ricordo bene il prima, il durante e il dopo di quella fotografia, di altri episodi non ricordo nient’altro che il momento della foto.
Ma come ci siamo arrivati in quel posto per fare la foto? Ci siamo divertiti o no? Cosa abbiamo mangiato? Quali posti abbiamo visitato? Chi c’era con me?

Se non dimenticato, tutto molto vago.
Esiste, dunque, una memoria selettiva? Eventi della nostra vita di serie A da ricordare ed eventi di serie B da poter dimenticare?
Perché alla nostra memoria sfuggono certi dettagli?
Pretendo troppo dalla mia memoria? Dovrei mangiare più pesce per avere più fosforo? Non si può ricordare tutto?

Succede anche a voi? Vorrei la vostra opinione.
La nostra memoria è importante.
La nostra memoria siamo noi.

Bruno Beatrice, la prima “vittima” del calcio

16 dicembre 1987.
37 anni fa ci lasciava Bruno Beatrice, la prima “vittima” del calcio e del doping (che i calciatori subivano “involontariamente”: nel suo caso, una miriade di cicli di raggi Röentgen, che gli causarono la leucemia).

Aveva solo 39 anni.
Bruno Beatrice me lo ricordo eccome, nelle mie figurine di bambino degli anni ’70, con la maglia viola della Fiorentina, con la maglia bianca del Cesena e quella rossoverde della Ternana.
💜 Per sempre campione.


https://www.avvenire.it/agora/pagine/beatrice-il-nostro-calcio-malato-di-omert

Il coraggio delle sorelle Mirabal: l’origine del 25 novembre contro la violenza sulle donne

Il 25 novembre di ogni anno si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro donne, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999.
Quella del 25 novembre non è una data scelta a caso dall’ONU: ricorre infatti l’anniversario dell’assassinio delle sorelle Mirabal, tre coraggiose donne rivoluzionarie, che furono assassinate nel 1960.

Le sorelle Mirabal e l’assassinio del 25 novembre

Le sorelle Mirabal

In una foto degli anni ’50 le sorelle Mirabal appaiono forti, sorridenti: Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa sono le tre sorelle uccise brutalmente il 25 novembre del 1960 dal regime del dittatore Trujillo – in Repubblica Dominicana – a cui loro avevano tentato di opporsi. Questo evento e questa data sono stati scelte dall’ONU come simbolo della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si celebra in tutto il mondo nello stesso giorno.

La trentennale dittatura di Trujillo sulla Repubblica Dominicana viene considerata una delle più dure dell’America Latina: dal 1930 al 1960 si calcola che furono uccise più di 50.000 persone.
Le sorelle Mirabal provenivano da una famiglia benestante che – come molte altre famiglie – era stata espropriata dei suoi beni dal regime; erano donne colte e decisero di organizzarsi per combattere contro le atrocità commesse da Trujillo. Insieme ai loro mariti diedero vita al “Movimento 14 giugno“, gruppo politico di opposizione clandestina che prese piede in tutto il paese. Ma i membri che ne facevano parte vennero perseguitati e molti incarcerati, comprese le sorelle Mirabal e i loro coniugi. Le donne furono poi liberate ma uccise brutalmente in un agguato
: mentre si recavano in macchina a visitare i loro mariti nella prigione di Puerto Plata, l’auto fu fermata dal Servicio de Inteligencia Militar, le passeggere fatte scendere e, condotte in una piantagione di zucchero, furono uccise a bastonate.

La morte delle sorelle Mirabal

Le sorelle Mirabal erano cadute in un’imboscata del regime. I cadaveri furono poi rimessi in macchina per simulare un incidente al quale però nessuno credette. Nonostante la censura imposta dal regime di Trujillo, fu subito chiaro che le sorelle Mirabal erano state uccise e molte coscienze si scossero. La figura di Trujillo iniziava a tramontare e la dittatura a scricchiolare: anche gli Stati Uniti, che lo avevano appoggiato fino a quel momento, smisero di proteggerlo dopo il suo tentativo di far assassinare il presidente del Venezuela Betancourt, contrario alla sua dittatura.

Quando a Minerva Mirabal dicevano che Trujillo l’avrebbe fatta ammazzare, lei rispondeva: “Se mi ammazzano, tirerò fuori le braccia dalla tomba e sarò più forte”. La promessa di Minerva si è realizzata: dall’assassinio delle sorelle Mirabal la dittatura di Trujillo ha iniziato a scricchiolare.

Qualche mese dopo il dittatore venne assassinato e, nel 1962, si tennero finalmente le prime elezioni libere dall’inizio della dittatura.

Giornata contro la violenza sulle donne: i simboli

I simboli della Giornata contro la violenza sulle donne

I simboli della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne sono le panchine e le scarpe rosse, simboli che rappresentano la lotta contro la violenza di genere. L’uso delle scarpe rosse è stato ispirato dall’installazione dell’artista messicana Elina Chauvet, intitolata Zapatos Rojos (“Scarpe Rosse”) e realizzata nel 2009 per ricordare le donne vittime di violenza della città di Ciudad Juárez, in Messico. Elina Chauvet posizionò 33 paia di scarpe di donne rosse in una piazza della città.

Da allora, le scarpe rosse sono diventate un segno universale per sensibilizzare sull’importanza di combattere ogni forma di abuso contro le donne e per promuovere una cultura di rispetto e parità.

In seguito, anche la panchina rossa è diventata un simbolo di sensibilizzazione e memoriale per le vittime di femminicidio e violenza di genere. La panchina rappresenta un “posto occupato”, un ricordo visibile e fisso delle donne che hanno perso la vita per mano di chi avrebbe dovuto amarle e proteggerle.

“Un letto per due”: la storia di un matrimonio, tra gioie e dolori, speranze e rimpianti

C’è tutto il talento da drammaturgo del grande Tato Russo – autore, produttore e ri-fondatore del Teatro Bellini di Napoli – nel testo dello spettacolo teatrale “Un letto per due”, in scena in questo fine settimana a Torino, al Teatro Gioiello. 
In un crescendo agrodolce, lo spettacolo mette in scena…lo spettacolo della vita e, in particolare, del matrimonio: la storia di Riccardo e Marina, il cui matrimonio – dopo 35 anni – è forse alla fine, tra difficoltà, tribolazioni, speranze, delusioni, gioie, ripensamenti, contraddizioni ed emozioni. 
Sul palco, i protagonisti sono due grandi attori, compagni di teatro e di vita: Riccardo Polizzy Carbonelli – storico volto televisivo della fiction “Un posto al sole” su Rai Tre, nel ruolo del “cattivo” Roberto Ferri – che interpreta un marito dolce, disincantato e infedele, eppure ancora innamorato della moglie Marina, nei cui panni troviamo Marina Lorenzi, attrice teatrale arguta e sensibile, che in scena diviene una moglie premurosa e disattenta e, al tempo stesso, ruggente e disperata. 
Lo spettacolo, della durata di un’ora e mezza da “vivere” tutta d’un fiato, ha come ambientazione la sola camera da letto dei due coniugi, dominata dal loro grande letto a due piazze al centro della scena. 
In mezzo, come un grande orologio biologico, scorre tutta la vita trascorsa insieme da Riccardo e Marina: il fidanzamento, il matrimonio, la nascita del primo figlio, il successo di Riccardo come scrittore, la relazione extraconiugale di lui, le nozze della loro figlia, i problemi di salute del figlio, la casa che da nido d’amore diventa “prigione” di grandi dolori e “umani comportamenti”, che fanno il conto con i “fantasmi” di ieri e di oggi, sia di Riccardo che di Marina. 

C’è il lieto fine? Questo lo scoprirete solo a teatro. 
Le scene e la regia sono firmate da Luca Galassi, le coreografie sono ad opera di Aurelio Gatti, che arricchisce la scena, in danza, con le virtuose ballerine Paloma Dionisi e Natassja Rottoli dell'”Incorporea Group”. I costumi sono realizzati da Giusi Giustino, il light design è affidato a Roger La Fontaine, realizzazione scenografica di Peppe Zarbo (altro volto noto di “Un posto al sole”), musiche di Zeno Craig. 

“Un letto per due” è un intenso racconto che trasforma la (presunta) favola del matrimonio in un percorso di vita realistico, tragicomico e significativo, in cui tutti noi – nel bene o nel male – potremo riconoscerci.