Il trionfo dell’umanità

di Riccardo Cestaro

In un periodo in cui lo sport è diventato sempre più agonistico e soltanto il risultato è ciò che conta, esistono ancora piccoli e grandi gesti di solidarietà sportiva fra gli atleti. Un paio gli episodi degni di nota sono infatti accaduti recentemente. Il primo risale all’11 dicembre 2017 e ha come protagoniste Chandler Self e Ariana Luterman, due studentesse partecipanti alla maratona di Dallas. La prima è stata la vincitrice anche grazie all’aiuto della seconda classificata, che a 500 m dall’arrivo invece di superarla, l’ha aiutata sorreggendola e spingendola in avanti per tagliare il traguardo. Un gesto spontaneo di grande sportività, quando Ariana si è accorta del collasso della sua avversaria, altrimenti incapace di portare a termine la gara.
Più curioso e singolare il secondo episodio accaduto il 3 gennaio 2018 in Scozia durante la partita di Championship scozzese tra Greenock Morton e St. Mirren, nella quale il terzino ospite Steios Demetriou, viene colpito da una barretta di cioccolato poco prima di eseguire una rimessa laterale. Civile e da applausi la reazione del difensore che, dopo un primo momento di stizza, risponde alla maleducazione dei tifosi avversari, raccogliendo e mangiando la barretta incriminata per poi riprendere il gioco. Una “dolce” conclusione che fa da monito a ciò che dovrebbe succedere quando si verificano eventi simili e da cui dovrebbero prendere esempio molti suoi colleghi sui campi di calcio. Troppe volte si sono viste reazioni esagerate o comportamenti antisportivi e disdicevoli. Al giorno d’oggi si presta forse troppa attenzione all’aspetto prettamente competitivo della prestazione sportiva, nella quale bisogna sempre e comunque surclassare l’avversario risultando vincenti. Fortunatamente ci pensano piccoli grandi atleti come questi a sottolineare valori che spesso vengono dimenticati, perciò bisognerebbe dare maggior risalto a queste notizie.

Il nostro idolo mentre addenta il Bounty piovuto dagli spalti.

 

Al Castello di Agliè è andata cosi…

Famoso per essere stato la location della fiction “Elisa di Rivambrosa”, il Castello Ducale di Agliè (Torino) ha ospitato anche i nostri Fruttero&Lucentini dei poveri, alias Tasso&Papus. Ce la siamo cavata bene, abbiamo presentato il nostro libro “Pesci Grossi”, ci siamo divertiti, abbiamo conosciuto persone simpatiche e interessanti…va bene cosi!!!

Rosa Parks, icona dei diritti degli afroamericani: la sua casa rivive al Palazzo Reale di Napoli

La casa di Detroit in cui Rosa Parks si è rifugiata dopo aver ricevuto minacce di morte al processo per il suo famoso “No” sull’autobus è stata ricostruita come progetto artistico a Napoli.

La sua ricostruzione ha spinto chi conosce la storia di Rosa Parks (1913-2005) a riflettere sulla sua eredità sociale, in un momento in cui le tensioni razziali aumentano. negli Stati Uniti e altrove.

Rosa Parks ha vissuto in quella casa di Detroit per poco tempo dopo il suo atto di sfida del 1° dicembre 1955.
Rosa ha 42 anni, fa la sarta e ha la pelle nera.
Questa volta si rifiuta di cedere il suo posto sull’autobus 2857 ad un passeggero bianco, come imponeva allora la legge.

Accadde a Montgomery, in Alabama.
Per Rosa Parks scattarono addirittura le manette.

Da lì, da quel gesto così significativo, da quel “No” così potente, il mondo cambiò

Il rifiuto degli afro-americani di salire sugli autobus urbani che ne seguì – e che durò un anno – è considerato la prima grande manifestazione americana contro la segregazione razziale.

Da quel giorno, anche Martin Luther King iniziò a mettere in atto la sua filosofia di azione sociale diretta e non violenta.

Al centro dell’imponente cortile centrale del Palazzo Reale di Napoli si trova una fatiscente casa di Detroit, dipinta a schegge.

Il suo significato? È il luogo dove visse Rosa Parks, simbolo della lotta per i diritti civili degli afroamericani.

È l’ultima tappa di una saga davvero familiare lunga anni, iniziata quando la nipote di Rosa Parks ha salvato la minuscola casa a due piani di Detroit dalla demolizione, dopo la crisi finanziaria del 2008.

La nipote di Rosa ha donato la casa ad un artista americano, Ryan Mendoza, che l’ha ricostruita per un’esposizione pubblica in Germania, e ora in Italia, dopo non aver trovato un luogo di esposizione permanente negli Stati Uniti.

“I membri della famiglia di Rosa Parks sono venuti da me e mi hanno chiesto di salvare la casa in cui Rosa viveva nel 1957”, spiega l’artista Ryan Mendoza.

“Era una casa sulla lista delle demolizioni, una casa che il governo americano era pronto a demolire. E la famiglia Parks ha pagato 500 dollari per salvare la casa dalla demolizione, e – dopo aver chiesto a 25 diverse istituzioni – mi hanno chiesto se sarei stato disposto ad aiutare a salvare la casa. E io, naturalmente, ho detto sì”.

La famiglia ricorda che Rosa Parks, morta nel 2005, aveva vissuto in quella casa di Detroit insieme ad altri 17 parenti.

Ryan Mendoza ha condotto una campagna di sensibilizzazione di oltre cinque anni per richiamare l’attenzione sul valore storico della casa.

“Questa casa racconta davvero la storia del perché la gente in America è così arrabbiata”, dice l’artista.

“È la memoria di quello che diremo ai nostri figli. Come considereremo la memoria e la storia? Questa casa è stata considerata spazzatura dal governo americano. È questo il modo in cui vogliamo andare avanti?”

La Fondazione Morra Greco di Napoli ha contribuito all’organizzazione della mostra “Almost Home” – in programma fino al 6 gennaio 2021 -, con il sostegno del Ministero della Cultura italiano e della Regione Campania.

Maurizio Morra Greco, presidente della Fondazione Morra Greco, afferma che la casa è un indelebile simbolo di ingiustizia razziale.

Sono convinto che, in questo momento, Napoli abbia l’opportunità di contribuire a questo fenomeno di integrazione. Credo che esporre qui quest’opera sia un dono, ma è anche un onere, perché ci obbliga necessariamente a riflettere“, aggiunge Morra Greco.

L’esposizione è accompagnata da una colonna sonora che si ripete, intitolata “8:46“, e che dura esattamente 8 minuti e 46 secondi.

È il “tempo della morte” di George Floyd, ucciso da agenti di polizia bianchi a Minneapolis, il 25 maggio 2020, tragico episodio che ha alimentato il movimento Black Lives Matter e le proteste in tutti gli Stati Uniti.
E in tutto il mondo.

Non è chi ama a dover cambiare. E’ chi odia

di Emiliano Rubbi

Vi confesso una cosa: mentre leggevo quello che è successo a Caivano, non riuscivo a togliermi un pensiero orrendo dalla testa, un pensiero di cui mi vergogno moltissimo: “speriamo che mio figlio, quando crescerà, sia eterosessuale”.

Ovviamente a me non cambierebbe assolutamente nulla se da grande amasse un uomo o una donna, o se sentisse di essere uomo o donna, ma per il mondo che ci circonda, a quanto pare, cambierebbe ancora moltissimo.
E l’ultima cosa che vorrei è che dovesse vivere una vita filtrata dallo stigma sociale, dall’odio immotivato, dalle risatine di scherno delle persone quando si allontana.

L’omosessualità, la bisessualità, la transessualità, per la nostra società sono ancora dei tabù.
E sono gli unici tabù basati non su motivazioni somatiche, etniche, culturali, ma sulla libera scelta delle persone di vivere liberamente la propria vita, la propria sessualità, i propri sentimenti.

Ti odiano perché ami qualcuno, in pratica.

E mi vergogno da morire, ma quando ho letto dell’omicidio di Maria Paola da parte del fratello ho pensato che, se potessi scegliere, vorrei evitare di far vivere anche questa difficoltà a mio figlio.
Vorrei evitargli una esistenza più difficile.
Come vorrei evitargli qualsiasi problema nella vita.

Ma essere omosessuali, bisessuali, transessuali, non è un problema.
È quello che sei.
È come avere gli occhi azzurri o gli occhi marroni, o la pelle bianca o nera.

Solo che nessuno, oggi, ti uccide se hai gli occhi azzurri o marroni, invece se hai troppa melanina per i loro gusti te la rischi, come se ami Ciro.

Allora ho pensato: meno male che mio figlio è bianco, almeno non lo picchieranno per quello.
E non è neanche nato in una famiglia ebrea, per fortuna.
Non è nemmeno una donna.

A questo punto speriamo solo che non sia gay, bisessuale, trans.
O che non decida di diventare musulmano.

Cazzo, non avevo pensato che potrebbe anche scegliere di diventare musulmano.
Lo odierebbero anche per quello, lo guarderebbero male anche per quello, lo discriminerebbero anche per quello.
E se fosse gay e musulmano?

Così, mentre questo turbinio di dubbi su come evitare a mio figlio di incorrere nelle discriminazioni dei nazisti dell’Illinois mi stava attraversando la testa, ho realizzato che l’errore più grande lo stavo facendo io.

Stavo considerando l’essere gay, bisessuale o transessuale una sorta di handicap, un “punto a sfavore”.
Non per me, d’accordo, ma per la società.
Ma non è chi ama a dover cambiare, è chi odia.

Non sono io a dover sperare che mio figlio ami “chi gli porta meno problemi”, perché sarebbero quelli che lo discriminano ad avere un problema, non lui.

Allora ho pensato che, in realtà, l’unica cosa che spero davvero è che mio figlio non diventi mai un intollerante.
Non diventi mai uno che odia.
Non diventi mai un omofobo, un razzista, un fascista.

Per il resto, spero che ami.
Chi vuole e come vuole.
Spero solo che ami tantissimo.

Maria Paola Gaglione, speronata e uccisa dal fratello, che non accettava la sua relazione con un trans.

Riparte la scuola, W la scuola!

di Cristiano Tassinari

Ve lo ricordate il primo giorno di scuola?
Io si, e anche abbastanza nitidamente.
Era il 1.ottobre 1975: non avevo neppure 6 anni.
Enfant prodige? Non mi pare.

Cartella rossoblu con una tartaruga sopra, muso lungo di chi a scuola non ci vuole andare e mamma Teresa che mi dice “Dai, vai!”, ma io tergiverso, poco convinto.
Alla fine, do un bacio alla mamma, supero la cancellata della scuole elementare (Dante Alighieri, forse?) ed entro nella vita “dei grandi”.

La scuola.
Perchè la scuola è cosi: come il ballo delle debuttanti, come l’ingresso in società, come la fine della pacchia da bambini dove l’importante giocare e come l’inizio dei doveri da piccoli adulti.
La vita “dei grandi”, appunto.

Comunque sia, è bellissimo.
E non sarà certo un maledetto virus – e tutto il suo contorno di terrorismo psicologico e mediatico, fatto anche di regole scolastiche astruse e assurde – a togliere ai “primini” il piacere/timore del loro primo giorno di scuola.
Indimenticabile.
E questo vale, senz’altro, anche per i più grandi, che – spesso e volentieri – dopo le vacanze non vedono l’ora di rivedere i loro compagni di classi – distanziati o no – delle medie e delle superiori per raccontare loro quello che è successo durante questa (strana) estate.
Ci siamo, ormai.
La campanella sta per suonare.
La scuola riparte, W la scuola!

Non rovinatela, per favore (e non mi riferisco, ovviamente, agli studenti).

Attenti al tè russo!

Sul caso di Alexey Navalny, attivista russo e avversario politico di Vladimir Putin, avvelenato con un tè al Novichok (un agente nervino) all’aeroporto di Tomsk, ci sarebbe molto da discutere. Ma forse, più di mille parole, basta questa vignetta. 

Ciao Greppi: mi hai voluto tu!

Qualche giorno fa se n’è andato Antonio Greppi, morto tragicamente nell’incidente del suo piccolo aereo, partito da Vercelli in compagnia di un amico e precipitato in Calabria.
Imprenditore agricolo, ma anche “visionario” della piccola grande televisione locale, Antonio Greppi è stato l’uomo – insieme a Davide Boscaini – che mi ha voluto a Quartarete, storica tv locale di Torino, uno dei luoghi e percorsi professionali a cui sono più affezionato.
E’ stato con Greppi e con Boscaini, all’inizio del 2009, che ebbi i primi contatti e con cui feci i provini per essere poi assunto in pianta stabile a Quartarete, nella sede di via Regaldi.
Dopo una trattativa di qualche giorno, anche sullo stipendio mensile, fu con una telefonata mentre io mi trovavo, casualmente, all’Ikea di Parma, che dissi “SI” alla proposta di Greppi, proprio con lui dall’altra parte della cornetta.
E iniziò la mia grande avventura a Quartarete, durata cinque bellissimi anni, anche se poi finiti amaramente, come a volte capita per certi matrimoni belli, ma che finiscono male.
Già qualche anno prima, però, Greppi aveva lasciato Quartarete, un po’ per problemi di salute e un po’ per scelta di vita.
Non ci sentivamo da anni. Fino al 4 giugno 2020, poco più di due mesi prima della sua inconsapevole e improvvisa morte.
Ho ricevuto una telefonata da un nome inconfondibile di Quartarete (una serie di cellulari che finiscono, ad esempio, con 005: il numero di Greppi), pensavo ad un errore e invece era proprio lui che, cosi, spontaneamente, voleva sapere come stessi e cosa stavo facendo, dandoci poi appuntamento a Vercelli, magari insieme all’amico (di entrambi) Darwin Pastorin.
Non ce n’è stata occasione, nè ci sarà più, purtroppo.
Mi dispiace tanto per Antonio Greppi, naturalmente.
Mi dispiace per Quartarete che non c’è più, mi dispiace per quegli amici di Quartarete che non ci sono più e per quelli che, sbagliando, pensano che si tratti di una maledizione.

Antonio Greppi, 68 anni, in questa foto è il primo a sinistra.