QUANDO LA RAI ERA MEGLIO DI UNA VATE…

Sono onorato di pubblicare questo pezzo di Giorgio Levi, apparso su Facebook il 29.12.2017.

Avevo 9 anni quando la Rai ha inaugurato, nel novembre del 1961, il secondo canale. Ricevere il segnale non era facilissimo. Bisogna armeggiare ore con un’antenna installata sul televisore di casa. Papà aveva un amico che vendeva tv e procurava antenne. Quel secondo canale lo volevamo a tutti i costi.

Nonno Giuanin che considerava la Rai una sorta di vate (“L’ha detto la Rai, perciò è vero”) non aveva perso tempo, ai primi di dicembre si era già attrezzato. E aveva abbandonato il primo canale. Tutte le sere sintonizzata il suo Magnadyne sulla rete due. “Il primo non ha futuro, io guardo il due”. Spegnava la tv quando a notte fonda compariva “l’uovo nel cestino” come noi chiamavamo il logo Rai che segnalava l’inizio e la fine delle trasmissioni.

Papà, il 31 dicembre, alla vigilia di Capodanno, chiama monsû Tonino, l’uomo che vendeva televisori in Borgo San Paolo. Tonino era un tipo bizzarro, la faccia storta preda di una serie di tic che lo costringevano a smorfie non umane. Credo che a mia sorella Betti, che aveva 6 anni, non piacesse molto. Tonino arriva con la sua antenna, la collega allo spinotto e non funziona. Stringe gli occhi, storce la bocca, tossisce, poi strizza le palpebre, alza le sopracciglia. Insomma, un calvario. Mentre lui strabuzza e muove il naso come un coniglio, l’antenna si sposta, si vedono le “righe” e per Tonino era già un buon segnale. Una cippa di segnale, pensiamo noi. E’ quasi ora di cena e Tonino è fermo alle sue righe. Alla fine abbandona il campo, ci vuole un’antenna potenziata, deve ordinarla. Mamma gli chiede se vuole una fetta d’arrosto. Se ne va con la bocca da una parte e gli occhi dall’altra.

Stavamo entrando nel futuro con il 1962 ma dovevamo dire addio al nostro primo Capodanno tecnologico. Avevamo letto che Rai 2 avrebbe trasmesso per “tutte le famiglie” una serata di cartoni della Disney. Anzi, era in programma anche un documentario con Walt Disney in persona che ci avrebbe fatto gli auguri.

Mamma gioca la carta di riserva. Il piano B. Telefona alla sua amica psicologa (quella che aveva decretato che ero un bel bambino, ma dotato di scarsa intelligenza) e ci fa invitare a casa loro. Ci siamo tutti, noi quattro, la psicologa, le tre figlie, il marito democristiano. Quando arriviamo il secondo canale è perfetto. Trasmette immagini sgranate di Disney World, ci fa vedere il mondo che sognavamo un giorno sì e l’altro pure. Poi c’è davvero lui, Walt in persona. Sono ammirato da quest’uomo che parla pure italiano. “E’ doppiato” mi dice la psicologa, come quando ci si rivolge ad un demente.

All’improvviso, appena vedo Pluto correre in un prato, parte la corrente. Sbam! Tutti al buio. Silenzio. Oddio, e adesso? Arrivano candele e candelabri d’argento. Il democristiano ne riceveva a vagonate a fine anno. La luce non torna, forse abbiamo troppi apparecchi accesi. Papà scende in cantina, armeggia un po’ e voilà. I lampadari a goccia si illuminano, il frigorifero si riprende, la tostatrice per il pane risputa le sue fette da spalmare con il salmone.

C’è un solo elettrodomestico muto come l’Orrido Moloch. Se ne sta lì troneggiante su un mobile di mogano, morto, defunto, spento, fulminato sulla via di Damasco. Saranno le valvole. Sarà che il 1962 mi sembrava che potesse cominciare meglio.

Libertà di stampa, questa sconosciuta

Già, libertà di stampa. Noi magari la diamo per scontata – anche se l’Italia è appena al 55.posto della classifica stilata da “Reporters sans frontieres” (era 77esima nel 2016) -, ma ci sono paesi che questa parola non la conoscono nemmeno. Cominciamo da uno dei paesi attualmente piu’ pericolosi per i giornalisti: la Turchia. E iniziamo da una delle storie piu’ conosciute e controverse, quella del giornalista ed editore turco Deniz Yücel, nato in Germania, e rinchiuso da quasi un anno in un carcere di massima sicurezza. In realtà senza mai essere stato incriminato di nulla: per il presidente Erdogan, Yüucel è una spia e un agente del PKK, il partito curdo dei lavoratori, eppure non è mai stato formalmente denunciato. Eppure la sua liberazione appare lontana. Si è dovuto mobilitare addirittura “Die Welt”, il quotidiano tedesco di cui Yücel è corrispondente, per lanciare una massiccia campagna per la sua liberazione, raccogliendo oltre 200 firme tra artisti e intellettuali, tra i quali Wim Wenders, Bono Vox, Sting e Orhan Pamuk. Esiste anche un hastag #freedeniz per supportare questa petizione. Da qualche settimana il giornalista turco non è piu’ in isolamento: ora divide una cella con due detenuti, di cui uno – guarda caso – è un altro giornalista, Oguz Usleur, del giornale turco “Haberturk”. E non è un caso: nelle prigioni turche, attualmente, si trovano 135 giornalisti, molti dei quali in carcerazione preventiva, per un vago sospetto di “propaganda terroristica”.

Oltre che sui giornalisti, l’ira del “Sultano” Erdogan dopo il fallito golpe del luglio 2016 si è scatenata su tutti gli apparati dello stato, dalla pubblica amministrazione all’economia privata. I dati sono inquietanti (forniti da Luca Ozzano, ricercatore del dipartimento cultura, politica e società dell’Università di Torino e relativi al periodo luglio 2016-novembre 2017): 146.713 persone licenziate, 128.998 detenute, 61.247 in stato di arresto. 3000 scuole, università e istituzioni educative chiuse (molte delle quali legate al predicatore Fetullah Gulen, ex alleato di Erdogan, ora, dagli Stati Uniti, il suo peggior nemico), 8.693 accademici licenziati, 4.463 giudici e procuratori licenziati, 187 media chiusi.

Se la Turchia è un caso che va ben oltre i limiti della decenza, in Polonia e in Ungheria le cose vanno meglio, ma non di troppo. Iniziamo dall’Ungheria, governata con cipiglio autoritario dal leader nazionalista Viktor Orban. Come ci spiega la ricercatrice Donatella Sasso, coordinatrice culturale presso l’istituto di studi storici “Gaetano Salvemini” di Torino e editorialista di EastJournal (www.eastjournal.net), l’Ungheria già nel 2011 ha approvato una “Legge Bavaglio” che all’epoca prevedeva; la soppressione di tutte le agenzie che producono o diffondono informazione nelle radio o nelle televisioni. Di fatto rimaneva attiva solo l’Agenzia di stampa governativa, finanziata da entrate statali. E ancora: multe per chi scriveva articoli non equilibrati politicamente o informazioni contrarie agli interessi nazionalisti, la cui valutazione era affidata ad un Garante di nomina governativa. Inoltre, i giornalisti avevano l’obbligo di rivelare le loro fonti. E i telegiornali dovevano rispettare la soglia del 20% per la cronaca nera (per non diffondere troppe brutte notzie…) e la musica nelle radio doveva essere, per il 40%, ungherese. L’ondata nazionalistica era già evidente. Da allora, la “Legge Bavaglio” è stata un po’ smussata nei suoi angoli piu’ spigolosi, su forti pressioni dell’Unione Europea e con buona pace di Orban, che continua comunque a fare buon viso a cattivo gioco. Ad aprile 2017, peraltro, 70mila persone scesero in piazza a Budapest per protestare contro la decisione del primo ministro di chiudere l’Università privata fondata da George Soros, il magnate ungherese ormai diventato un acerrimo nemico per Orban.
In Polonia, intanto, nel dicembre 2016 ci furono numerose manifestazioni di piazza a favore della libertà di stampa e contro il decreto legge del governo che intendeva ridurre gli accrediti per i giornalisti che seguono abitualmente i lavori parlamentari. Solo due per testata, con il divieto tassativo di scattare foto e girare video dei lavori del Parlamento. Un sistema per impedire che venissero immortalate eventuali violazioni delle regole, come l’attività dei cosiddetti “pianisti” (i deputati che votano anche per i colleghi assenti). Dopo uno scambio di frecciate tra il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e Jaroslav Kaczynski, leader del PiS, il partito di maggioranza, il decreto legge è stato ritirato. Vedremo fino a quando. Intanto, ad inizio dicembre, a Varsavia è cambiato il primo ministro: Mateusz Morawiecki ha rimpiazzato Beata Sdyzlo, giudicata troppo morbida, anche con i giornalisti.

Per la cronaca, in testa alla classifica di “Reporters sans Frontieres” sulla liberta’ di stampa c’è la Norvegia, che dopo sei anni ha scalzato la Finlandia. La Germania è al 16esimo posto, la Polonia al 54esimo, l’Ungheria al 71esimo, la Turchia al 155esimo posto su 180 paesi. Ultima in classifica, la Corea del Nord.

L’OPERA OMNIA DEL TASSO

Qualche giorno fa, con l’organizzazione dell’amica e manager Erica Maria Del Zotto, ho presentato tutti i miei cinque libri, scritti in questi ultimi anni, da quando ho deciso di pubblicare tutte le idee che avevo nel cassetto, convinto di aver scritto un best-seller. Per il momento, ancora no, ma è vietato arrendersi, vero? E allora vi presento tutta la mia “Opera Omnia”: il primo libro è “Volevo solo fare il giornalista”, seguito da “Benvenuti su TeleParadiso” – entrambi dedicati al mondo del giornalismo -. poi è arrivato il thriller fantapolitico “La Banda delle Malvinas”, quindi il noir “Il nemico del Giaguaro” e, infine, il sentimentale e intimista “Riparazioni d’amore in corso”. 
Vi interessano? Vi hanno incuriosito i titoli? Scrivetemi in tutti i contatti che ho, a cominciare da Facebook e dalla mia mail: cristianotassinari@yahoo.it

E buona lettura….

P.s. Nella foto mi vedete insieme all’amico e compagno di teatro Gualtiero Papurello, in arte Papus, autore di memorabili commedie e del romanzo “Il pallone sulla tela” dedicato a Gigi Meroni.

TRIONFO ISRAELIANO AL TORINO FILM FESTIVAL

Trionfo israeliano al Torino Film Festival. Il miglior film è “Don’t forget me” del regista Ram Nehari. E’ la storia di una ragazza che soffre di anoressia e di un giovane suonatore di tuba un po’ svitato: il loro amore cresce, piano piano, tra ospedali psichiatrici, centri di riabilitazione alimentare e voglia di normalità. Il successo di “Don’t forget me” è completato dalla statuetta come miglior attore per Nitai Gvirtz e come miglior attrice per Moon Shavit, ad ex aequo con l’inglese Emily Beecham di “Daphne”.
Tra gli altri premi: premio della critica per “Fabrica de Nada” del portoghese Pedro Pinho, un film ruvido e realista sulla crisi economica in Portogallo. Premio del pubblico per due pellicole francesi: “A voix haute” di Stephane De Freitas, ambientato all’università di Saint Denis. tra grandi oratori e grandi educatori e per “Kiss and Cry”, di Lila Pinell e Chloè Mahieu, dedicato al duro percorso nella vita e nel pattinaggio. Tra i documentari, premio Cipputi per la sezione dedicata al lavoro al regista toscano Quadri, con il suo “Lorello e Brunello”, la storia di due gemelli agricoltori e pastori e la loro vita aspra nelle campagne della Maremma.
Finisce cosi la 35esima edizione del Torino Film Festival, con buoni risultati di pubblico e di critica. A dimostrazione che la formula scelta, film poco conosciuti ma di qualità, è quella giusta.

E il nostro inviato speciale c’era…