di Aldo Grasso (dal Corriere della Sera)
Con Luke Perry sono morti gli anni ’90? In realtà, niente muore, tutto ritorna; per questo è giusto ricordare quella magnifica macchina da sogni adolescenziali che è stata «Beverly Hills 90210», il primo esempio compiuto di teen drama, come lo intendiamo oggi. Creata da Aaron Spelling, da Darren Star, da Charles Rosin e da altri ancora (in Usa dal 4 ottobre 1990, in Italia dal 19 novembre 1992 su Italia 1), la serie ruotava attorno alla famiglia Walsh, trasferitasi per il lavoro del padre dalla provinciale Minneapolis alla mondanissima Beverly Hills. «Beverly Hills 90210» era «Happy Days» vent’anni dopo; era la parte solare di «Twin Peaks», l’altra faccia di Gioventù bruciata.
C’era ancora Fonzie, che qui si chiamava Dylan (come Bob, come il poeta Dylan Thomas), c’erano i gemelli Walsh (come il grande regista), lei Brenda e lui Brandon (quasi come Marlon). C’era l’intellettuale del gruppo, una ragazza, che si chiamava Andrea Zuckerman (suo padre sarà certo uno dei tanti mitteleuropei finiti a Hollywood). «Beverly Hills» è stato il sogno easy chic di un mondo fatto di belle case, belle macchine, bella vita e brutti problemi. In America, alla fine delle puntate incentrate su particolari tematiche sociali (e la droga, l’alcolismo, il razzismo, la maternità indesiderata, l’Aids), venivano proposti numeri verdi di assistenza. In Italia, ci pensavano le mamme più apprensive a vietarne la visione! «Beverly Hills» è stato un luogo mitico di riflessione, il primo «parliamone» dedicato ai teenagers. Non c’è scritto da nessuna parte che per affrontare un problema sia necessario discuterne, magari in tv. L’educazione sentimentale può anche scaturire dalla lettura di un libro. O dalla visione di un film. O di una serie. E «Beverly Hills 90210» ha fatto proprio questo: ha raccontato, ha messo in scena i problemi, ha narrativizzato le paure.