Nei giorni scorsi è arrivato il “No” del governo-Meloni alla proposta di regolamento Ue sul certificato europeo di filiazione: quello secondo cui la genitorialità stabilita in uno Stato membro va riconosciuta in ogni altro Stato membro, senza procedure speciali, che si tratti di figli di coppie eterosessuali od omogenitoriali, di figli adottati o avuti con la maternità surrogata dove sia consentita.
La commissione Politiche europee del Senato ha infatti approvato con 11 voti a favore su 18 una risoluzione della maggioranza che di fatto affossa il regolamento europeo.
Compatte sul no tutte le opposizioni, ma non è bastato per fermare il blitz della maggioranza. Il testo della risoluzione sostiene che “l’obbligo di riconoscimento del certificato Ue di filiazione non rispetta i principi di sussidiarietà e proporzionalità, per cui se venisse adottato sarebbe un’invasione del diritto europeo su quello nazionale”.
“Si trattava di riconoscere uguaglianza e civiltà. Ormai siamo alla destra ungherese”, ha commentato il deputato del PD Alessandro Zan.
Entrando nello specifico del testo del regolamento, questo non richiede agli Stati di riconoscere alle coppie gay il diritto di adottare bambini né tanto meno obbliga a riconoscere la pratica della maternità surrogata nella propria nazione, ma richiede solo di riconoscere ai bambini eventualmente nati in altri Stati da coppie gay o da maternità surrogata gli stessi diritti che hanno gli altri bambini. L’idea è appunto armonizzare il diritto degli Stati membri per fare in modo che un bambino che ha un diritto in una nazione non lo perda se per caso va in un’altra. Ad esempio, un bambino che è figlio di una coppia gay regolarmente residente e sposata in Spagna, dovrebbe secondo Bruxelles essere considerato come figlio di entrambi i genitori anche nel caso la famiglia si trasferisse in Italia.
L’intervento della Commissione europea nasce dal fatto che in passato figli di coppie gay si sono trovati in una sorta di limbo quando i loro genitori si sono spostati da uno Stato membro dell’Ue all’altro. Uno dei casi limite che ha scatenato un forte dibattito è stato quello di una coppia di donne, una bulgara (la madre biologica) e una di Gilbilterra, che si erano sposate in Spagna e avevano avuto lì un bambino. Questo bambino non poteva avere la cittadinanza spagnola non avendo genitori spagnoli, ma anche la Bulgaria gli voleva rifiutare la sua cittadinanza, non riconoscendo il certificato di nascita che, come concesso dalla legge spagnola, elencava le due donne come madri del piccolo assegnandogli entrambi i loro cognomi. Alla fine la Corte Ue ha stabilito che Sofia doveva concedere il passaporto al bambino, che altrimenti sarebbe rimasto apolide, pur essendo nato da una madre bulgara.