Ornella Vanoni se n’è andata, e lo ha fatto a modo suo, sbadatamente, sbuffando, con una voglia di gelato insoddisfatta e quel capriccio, l’ultimo, che ha dimenticato sulla credenza prima di uscire di scena. Non fatevi ingannare da chi analizza puntualmente le vite altrui a posteriori: la morte fa tutti grandi e, talvolta, assimila la straordinarietà alla normalità.
Ma per la grande interprete milanese questo non vale. Lei è stata la più grande cantante italiana del dopoguerra, e anche di gran lunga. Mina, per quanto bravissima, non potrà mai uguagliarla, non certo per la tecnica vocale, lì vincerebbe sempre e comunque la tigre di Cremona, ma per la semplicità e la naturalezza con cui ha trasformato il parlare comune in canto, allo stesso tempo essenziale e sognante, organo vitale costantemente irrorato da un immenso cuore.
Voce mutevole come ore del giorno, strade assolate, temporali e stagioni, ma sempre con lo stesso effetto ipnotico, indulgente e ammaliante, è stata – e forse per sempre sarà – l’usignolo d’Italia. E come un usignolo si è appartata e ha intonato la sua melodia necessaria, il suo richiamo d’amore. E facendolo ci ha attirati in un mondo fatto di note e sussurri, toni e gorgheggi, spartiti di lacrime e risate, giurando, rimuovendo e modulando il suo senso della vita sulle strofe che di volta in volta ha cantato, sempre pagando di persona, e sempre credendo nel suo tempo e nella sua magia, mai alle sue asettiche e algide raffigurazioni.
Femmina come poche, è stata così libera e indipendente da evocare sempre il canto dell’usignolo, con le sue mille tonalità, apprese o forse da sempre conservate nelle oscure e fragili profondità della sua anima. Giambattista Marino, parlando di questo uccello, nel suo poema eroico L’Adone, ha scritto: “In mille fogge il suo cantar distingue / e trasforma una lingua in mille lingue”.
Provate a chiudere gli occhi e riascoltare le decine e decine di canzoni che ha reso immortali, e ditemi se non è proprio nella multiformità – quella dai “toni singoli e doppi densamente allineati l’uno all’altro” dell’usignolo appunto – che è riuscita magistralmente a scrivere la sua storia canora. E come un usignolo è giunta dai luoghi più appartati e oscuri della sua altrettanto poliedrica umanità – la ricorderete di certo agli esordi della folgorante carriera nelle canzoni della mala – per coltivare poi senza più tentennamenti una primavera di canzoni universali e bellissime, anche quando non era l’amore (il signore incontrastato della sua vita professionale e personale) ma il dolore a rappresentarla. L’ho sempre amata, nei suoi successi come nei suoi insuccessi – canticchio ancora spesso “La voglia di sognare”, che lei stessa definì durante un concerto una “canzone di nessun successo” – alla pari solo di Lucio Battisti, l’unico capace di starle al passo, per valore intrinseco dell’artista e assenza assoluta di una qualche collocazione temporale alla loro produzione musicale. Ho perfino scritto tanto tempo fa un testo per lei, mai giunto a destinazione e ora perso chissà dove. Nella mia testa c’era la sua voce a intonarlo, nel mio cuore il suo sorriso malinconico e benevolo ad accoglierlo.
E ora che quell’usignolo è partito per terre da cui non si torna più indietro, mi resta la rabbia per non averglielo mai spedito. Ma forse è meglio così, oggi avrei ancora più nostalgia per averla perduta, quando in verità è solo migrata – come ogni buon uccello che si rispetti – per portare i suoi abbracci, le sue grandi e fragorose risate, le sue parole sussurrate e, soprattutto, le sue straordinarie interpretazioni, al buon Dio, che se ne beerà, né più né meno di come abbiamo fatto (e continueremo a fare) noi qui in Terra. Perché quello che è stata – non solo quello che ha cantato – resterà vivo in noi per sempre, a lenire il nostro dolore, accarezzarci e migliorarci, proprio come fa il canto di un usignolo, da qualunque angolo della terra, o del cielo, provenga.
(Gerardo Casucci, “Ottopagine”)


