IL CNEL: “MIRACOLATO” DAL REFERENDUM

Alzi la mano, sincero sincero, chi sa che cos’è il Cnel. Siete in pochi, vero? Gli altri non si debbono angustiare: il Cnel è un oggetto misterioso anche per noi. E proprio per questo, spinti da sana curiosità giornalistica e dalla pubblicità che al Cnel è toccata in sorte durante la campagna referendaria dello scorso 4 dicembre 2016 che ne chiedeva l’abolizione, vogliamo decisamente saperne di più e fare luce su uno dei tanti enti inutili della nostra amministrazione.
La spiegazione dell’acronimo Cnel già aiuta a capire meglio quali sono (quali sarebbero state, per meglio dire) le sue funzioni: Cnel significa Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Per occuparsi, come dice il nome, di economia e lavoro, si è formata una specie di vero e proprio Parlamento parallelo, composto da esponenti di sigle sindacali, associazioni industriali e imprenditoriali (anche Confindustria) e rappresentanti del cosiddetto “stato sociale” (il Terzo Settore, le associazioni di volontariato…).
La storia e la presenza del Cnel, tuttavia, non è campata in aria: affonda le sue radici nella Costituzione della Repubblica Italiana, istituito proprio dall’articolo 99 della nostra Costituzione, con il compito di fornire consulenza al governo e al Parlamento, il tutto ribadito da una legge ordinaria del 1986, con la facoltà di proporre anche disegni di legge, su questioni economiche e sociali. L’intenzione dei “padri fondatori”, quindi, era più che legittima e trasparente. Ma è stato con gli anni che si è capito, gonfiandosi peraltro a dismisura, che il Cnel serviva (serve, visto che esiste tuttora, dopo il NO al referendum che ne chiedeva l’abolizione) veramente a poco. Eppure, la struttura è sempre stata piuttosto imponente: fino al 2011, il Consiglio era composto da 121 consiglieri, poi – in seguito ad una necessaria cura dimagrante – dimezzati a 64, e ora a 24, dopo le dimissioni di 40 consiglieri, mai rimpiazzati. Se non altro, dal 2015, i consiglieri non prendono più nemmeno l’indennità (era più di 2 mila euro al mese) né tanto meno i rimborsi spese, e dev’essere stato per questo che i 40 consiglieri di cui sopra si sono dimessi, in un paese come l’Italia dove non si dimette mai nessuno. Ai tempi d’oro, il Cnel ci costava 22 milioni di euro. Adesso, se non altro, un pochino meno: 8,7 milioni di euro, per 50 dipendenti ed una elegante sede nella palazzina di Villa Borghese, a Roma.
Ma in questi 70 anni di vita, cosa ha combinato il Cnel? Ben poco, numeri alla mano: 96 pareri, 350 osservazioni (di cosa? delle stelle?) e proposte, 270 rapporti e studi, 90 relazioni, 130 convegni (nemmeno due all’anno!) e 14 disegni di legge (uno ogni cinque anni! Nessuna di queste proposte di legge, peraltro, è stata mai recepita dal Parlamento). Non un lavoro da stakanovisti, sembra. Con due riunioni al mese per ogni commissione (ce n’erano quattro) e una seduta plenaria di tutti i consiglieri, una volta al mese. Non si sono mai ammazzati di lavoro! Ma a difendere strenuamente il Cnel – oltre agli elettori che al referendum hanno votato NO (non certo all’abolizione del Cnel, ma alla fine conta il risultato finale) – è soprattutto il suo presidente, Delio Napoleone: non nasconde l’ormai evidente anacronismo di un Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (soprattutto con l’economia in crisi e senza lavoro), ma prova a fornire una spiegazione storica dell’attuale fallimento dell’ente che dirige: “Il Cnel  è stato voluto dal Parlamento come risposta a un modello sociale in vigore all’epoca. Solo che mostra tutti i segni del tempo, perché 70 anni fa il mercato del lavoro era per il 50% nel settore primario e secondario, industria e agricoltura. Negli ultimi anni, industria e agricoltura contano solo per il 20%, mentre l’80% del mercato del lavoro è costituito dal settore terziario, che non trova rappresentanza nel nostro parlamentino. Quindi, adesso che abbiamo scampato il pericolo dell’abolizione, ben venga una necessaria rivisitazione del Cnel e delle sue attività”.
Come, quando, perchè e in che modo non è ancora dato sapere. Forse servirà un nuovo referendum, stavolta propositivo, per capire cosa farne di questo ente inutile. Anzi, peggio: il Cnel sarebbe pure utile, ma senza riuscire a fargli svolgere i suoi reali compiti, diventa davvero il più inutile delle istituzioni pubbliche.
Da abolire. AnCNELche senza referendum. 

Di chi è la colpa?

E adesso a chi diamo la colpa, per la morte di “Giò”, il ragazzo di nemmeno 16 anni che a Lavagna (Genova) si è tolto la vita dopo essere stato scoperto all’uscita dalla scuola con 10 grammi di hascisc nello zaino?
E’ colpa della Guardia di Finanza che ha fatto il controllo?
E’ colpa della mancata legalizzazione delle droghe leggere, da più parti (politiche) invocata per risolvere il problema del traffico di sostanze stupefacenti?
E’ colpa dei genitori, che non hanno saputo affrontare nella maniera più efficace un evidente disagio del figlio?
O è colpa proprio di “Giò”, che poteva fare pure a meno di “fumare” a 16 anni?
Difficile, se non impossibile, trovare una risposta a queste difficili domande. Forse la risposta meno banale è una necessaria via di mezzo tra tutte le domande che ci siamo posti. Poi pensiamo che è comunque impossibile trovare una spiegazione a quello che è successo senza conoscere i fatti: a cominciare dai rapporti familiari, quelli che hanno condizionato – forse per la vergogna – l’estremo tragico atto del ragazzo. La mamma (adottiva) di “Giò”, durante il funerale, ha avuto molta dignità e molto coraggio: nel chiedere scusa al figlio, per non averlo capito, indirizzandogli un “Perdonami, piccolino” che gli arriverà fin Lassù. Ma la mamma ha avuto molto coraggio anche nel resistere alla tentazione di scaricare ogni responsabilità addosso alla Guardia di Finanza, che in questo caso ha fatto solo il proprio dovere. “Sono stata io a chiamare i finanzieri”, ha detto la mamma, che probabilmente non sapeva più come affrontare il problema del figlio di 15 anni, se non rivolgendosi ai tutori dell’ordine.
Poi, ognuno di noi, è libero di pensare a chi era e come era a 16 anni, a cosa faceva a 16 anni, a che compagnie frequentava a 16 anni, alle esperienze che ha fatto a 16 anni. lavagnaForse era meglio continuare a giocare al pallone, nel vivaio dell’Entella, e mettersi in bocca un chewingum e non uno spinello, ma noi non siamo qui per giudicare.
“Giò” ha già giudicato se stesso.
E si è giudicato colpevole.
Al di là delle proprie colpe. 

DELITTO, CASTIGO, PERDONO E VENDETTA: E LA GIUSTIZIA?

DELITTO, CASTIGO, PERDONO E VENDETTA: E LA GIUSTIZIA?
di Cristiano Tassinari

La storia di cronaca nera che arriva da Vasto (Chieti) è terribile: Fabio Di Lello ha ucciso con tre colpi di pistola calibro 9 Italo D’Elisa, il ragazzo di quasi 22 anni che sei mesi prima, in un tragico incidente stradale – dopo essere passato, con la sua auto, con il rosso ad un semaforo- ha travolto e ucciso Roberta Smargiassi, 34 anni, la moglie di Fabio Di Lello. La donna si trovava a bordo del suo scooter. Dopo 180 giorni di mancata giustizia, Fabio ha deciso di farsela da sé. Un’esecuzione in piena regola, organizzata e premeditata. Poi, la pistola lasciata sulla tomba di Roberta, come fosse un macabro omaggio alla sua amata che non c’è più. Infine, l’omicida (bisogna chiamarlo cosi) ha chiamato i carabinieri si è costituito.
Una storia terribile. Un caso che scuote le coscienze. Tanti gli interrogativi, tante le opinioni, tre le parole chiave: vendetta, perdono, giustizia. Giornali, televisioni, radio e siti web hanno azzannato alla gola la profonda tristezza di questa vicenda, promuovendo assurdi sondaggi del tipo “Voi cosa avreste fatto: vi sareste vendicati, avreste perdonato, avreste aspettato che la giustizia facesse il suo corso?”. Se proprio vogliamo essere sinceri, statisticamente ne esce una altissima, aberrante percentuale di “ha fatto bene!”.
Io non me la sento né di dire “ha fatto bene!” né “ha fatto male!”: non me la sento, e basta. Ma nessuno – ripeto: nessuno – può nemmeno lontanamente immaginare quello che dev’essere passato per il cuore e per il cervello di Fabio Di Lello, quando ha deciso di impugnare la pistola e mettere in atto il tuo tremendo piano di vendetta. Una vendetta consumata fredda. Troppa fredda, forse persino gelida, sicuramente troppo lunga, è la giustizia. Italo D’Elisa avrebbe risposto del reato commesso, omicidio colposo. Ma sarebbe andato in carcere per omicidio colposo? Quasi certamente no. Quel maledetto 1° luglio era passato con il rosso, ma non era fuggito, non aveva omesso il soccorso alla povera Roberta appena travolta, non risultò sotto l’effetto né di alcolici né di sostanze stupefacenti. Omicidio colposo. Sarebbe andato in galera. Molto probabilmente no. Questa mancanza di giustizia – oltre a certi atteggiamenti provocatori del ragazzo, che mai aveva chiesto scusa, nei confronti di Fabio Di Lello, questo almeno racconta l’avvocato – ha scatenato la furia omicida, la sete di vendetta di Fabio. Chissà se adesso si sente più leggero con la coscienza, se sente finalmente di aver riparato il “torto” subito dalla sua Roberta. Può anche darsi. Ma poi? Quando gli anni da scontare in prigione saranno tanti, come reagirà il “povero” (lo merita anche lui) Fabio Di Lello? Chi porterà i fiori alla sua amata Roberta?
Nell’eterna sfida tra delitto, castigo, vendetta e perdono, stavolta avrebbe dovuto vincere la giustizia.
Ma è troppo facile dirlo, per noi che non abbiamo dovuto patire quello che sofferto Fabio Di Lello.
La terza vittima di questa terribile storia.
Roberta e Fabio vogliamo ricordarli felici, come sono in questa foto. 

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TUTTI VOGLIONO PROVARE “IL SUGO DI UGO!”

TORINO – Niente e nessuno ferma i Teatroci, nemmeno la superstizione (17esima replica, sedie viola, pantaloni e sciarpa viola di alcuni protagonisti, un’attrice rimasta disperatamente chiusa nel bagno del backstage e cacca pestata nel pomeriggio da uno degli attori…). Per il terzo anno di fila, ci siamo esibiti al Teatro Cardinal Massaia di Torino per la nostra nuova “prima”, stavolta de IL SUGO DI UGO, la prima sfida gastro-comica d’Italia tra carnivori, vegetariani e vegani (terza commedia della nostra trilogia cominciata con CANI, GATTI, PARENTI E AFFINI e proseguita con VIENI ANCHE TU SULL’AUTO BLU, ma bollono altri copioni in pentola….) . 302 spettatori: un sold out mai visto prima!!!! (E abbiamo creato uno zoccolo duro di fedelissimi!). E la necessita’, presto, di fare nuove repliche. Ce la siamo cavata anche stavolta, pur tra mille difficolta’ pratiche ed organizzative, che siamo riusciti a superare con grinta e buona volonta’. E le risate cristalline e gli applausi scroscianti del pubblico – gentile anche nel perdonarci qualche piccola sbavatura – sono stati il sorprendente premio per il nostro impegno. Bravissimi tutti i nuovi componenti dei Teatroci: l’esordiente assoluto Francesco Lemmi, perfetto nella parte di Trump, pronto a tutto pur di ritrovare la moglie Melania, il fantastico Maitre Alessandro Iulianelli, proprio elegante e impeccabile (vero Manuela Di Franco?), il geniale Alberto Errigo, crudista, nudista e…Panceras, sempre a letto con le galline, e il nostro 007 Michael Bertuol Mingrone, un Dean Lavan con licenza di uccidere…i germi! E poi i ”vecchi” della compagnia: l’inossidabile Gualtiero Papurello, capocomico e chef stellato molto…Stracco, Erica Maria Del Zotto, regista e nobildonna con qualche difettuccio di deborbante multipersonalita’, Luca Bertalotti, implacabile critico gastronomico alla Crespelli (le stellette dipendono da lui!), Vito Gioia, nelle vesti (succinte, mi pare, cosi hanno detto…) del re del gossip, Cristiano Tassinari, un Annibale Piragna vorace e buzzurro e Giorgia Giardullo versione suora orsolina (“Su Ordina”!) in stile Sister Act. A completare l’opera: Ugo Bruno e Laura M. Vaschetto nella parte dei coniugi profumisti e ballerini signori Amoretti, Marco Tancredi, un tipo insonne, ma vispo (e che bel pigiamone!), Marco Sarro, un sommelier molto professionale e quanto mai sobrio (?), Dora Tota, fruttariana scollatissima e convintissima (dalla panna), Caterina Fera, una simpaticissima Balen, soubrette taglia XXXL e Federica Fulco, un po’ Arpia e un po’ Valeriana Cetrioli, sempre con il sorriso sulle labbra (“Che ridere”!).
Bravo e attento il nostro regista Valter Varesco. Scenografia super di Patrizia Del Zotto, trucco parrucco pollo e polpette a cura di Anto Macrì, foto del mitico Claudio Bonifazio e della “paparazza” figlia d’arte Michela Gioia, riprese video di Alberto Zambernardi. Grazie a Lele Boccardo per le interviste. Grazie a Daniele Rinaldi, Kevin e Luca per la consueta disponibilita’ del Teatro Cardinal Massaia. E che colonna sonora (richiestissimo il nostro dvd.con gli stacchetti musicali…ma senza la commedia, ahahah).
E allora, dopo il trionfo di stasera…adesso mambo!
Ci vediamo presto in giro!
Non perdiamoci di vista!

FALSO MAGRO

ARRIVA IL “IL SUGO DI UGO”

SABATO 28 GENNAIO, ALLE 9 DI SERA, VI ASPETTIAMO AL TEATRO CARDINAL MASSAIA DI TORINO (VIA SOSPELLO 32) PER LA “PRIMA” DELLA NUOVA COMMEDIA DEI TEATROCI, “IL SUGO DI UGO”, LA PRIMA SFIDA GASTROCOMICA D’ITALIA! DA MORIRE DAL RIDERE! MA ALMENO VENITE CON LO STOMACO PIENO……

LOCANDINA CARNIVORI vs VEGANI con tutti gli attori

IL MIRACOLO BATTE’ LO STATO

di Cristiano Tassinari

Un vero miracolo. Forse, in realtà, un mezzo miracolo: non tutti gli ospiti dell’Hotel Rigopiano di Farindola (Pescara) sono stati salvati, infatti. Ma è sempre meglio un mezzo miracolo che nessun miracolo. E mentre noi stiamo qui al calduccio, davanti al computer e alla tastiera, a scrivere e a leggere queste righe, i meravigliosi soccorritori sono ancora lassù, alla pendici del Gran Sasso, a scavare disperatamente nella speranza di salvare altre vite umane, il più possibili. Inutile, ora, fare la statistica dei superstiti, di chi non ce l’ha fatta e di chi è ancora tra i dispersi. E’ già incredibile pensare che qualcuno possa essere riuscito a farcela: nemmeno io avevo più speranze, sentendo le ultimissime dai telegiornali, dopo un giorno e mezzo di affannosa impossibilità a raggiungere quel luogo impervio, dove una slavina – forse una vera e propria valanga, causata dalle scosse di terremoto di quelle ore – aveva letteralmente sommerso e stritolato l’albergo. Non avevo più speranze io, figuratevi come dovevano stare i parenti dei famigliari intrappolati lassù! Poi, all’ìmprovviso, la speranza diventa realtà. Con i primi salvataggi. La mamma e il figlio. La bambina. Tutti gli altri, salvati. E allora possiamo proprio dire che è stato un miracolo, possiamo proprio dire che i fantastici soccorritori (pompieri, finanzieri, carabinieri, volontari della Protezione Civili, volontari…) e…Dio hanno sconfitto le negligenze di uno Stato inetto, assolutamente incapace di reagire a questa calamità naturale. Gli uomini si, i mezzi no. Non è il caso, ora, di fare polemiche. Ma, dopo, bisognerà indubbiamente fare il punto della situazione su una penuria organizzativa nella macchina dei soccorsi – pur in condizioni complicatissime – che non fa onore alla nostra tradizione di protezione civile (scritta senza le maiuscole, per indicare l’attività e non la struttura predisposta alla nostra…protezione!).
E i politici? In tutta questa tragedia, si è notata la loro clamorosa assenza, come se non sapessero cosa dire per giustificare quel che è accaduto, come se non sapessero cosa fare per evitare fischi e polemiche. Gli stessi fischi, le stesse lamentele dei cittadini colpiti dal terremoto in agosto e in ottobre, costretti a giocarsi la casa…al sorteggio!
Qualcosa (molto) non va in questo nostro Belpaese: meglio averlo capito subito (ma lo abbiamo capito?) e correre ai ripari.
Non ci saranno sempre i volontari e Dio a proteggerci. A proteggerci anche e soprattutto dallo Stato. hotel-rigopiano-

BRUTTI FIGLI DI QUESTO MONDO

Riflessione di Cristiano Tassinari 

La tragedia di Pontelangorino, in provincia di Ferrara, sulla strada che porta verso il mare, mi ha colpito ancor più da vicino: sono le mie terre, le mie zone, persino le mie spiagge. Sono ferrarese proprio come Riccardo, il ragazzo di 16 anni che l’altra notte ha ammazzato a colpi di ascia il papà Salvatore e la mamma Nunzia. Avete letto bene? Ha ammazzato il papà e la mamma. Colpevoli, forse, soltanto di averlo rimproverato – più e più volte, certo, come fanno i genitori – per il suo pessimo rendimento a scuola. Al culmine di una insopportabilità famigliare impossibile da capire razionalmente, il ragazzo ha coinvolto addirittura il suo migliore amico – un altro minorenne, di 17 anni (diventerà maggiorenne a novembre) – offrendogli mille euro per dargli una mano ad uccidere i genitori (cento euro in anticipo e il resto a “lavoro compiuto”). Terribile spietatezza calcolata. Doppio omicidio premeditato, come recita l’accusa nei confronti dei due ragazzi assassini.
Chissà che fine faranno: per un delitto tanto efferato non c’è sufficiente condanna nè sufficiente giustizia, nemmeno il massimo della pena. Non vorremmo, però, in questo paese iper-garantista, che il fatto di non aver ancora raggiunto la maggiore età sia un alibi per scaricare la coscienza di giudici che, con le condanne, ci vanno sempre inspiegabilmente con i guanti di velluto.
Questi due ragazzi assassini, Riccardo e il suo amico “prezzolato”, sono figli di un brutto mondo e brutti figli del mondo. Un mondo che non conosce la gratitudine, nemmeno da parte dei figli nei confronti dei genitori. Pensateci bene: i figli non restituiscono nemmeno l’1% di quello che mamma e papà hanno fatto (e fanno) per loro. Quante volte la mamma ha dovuto sopportare i pianti, i capricci, le malattie, i problemi di salute e di carattere dei figli? Quanto il papà ha dovuto spaccarsi la schiena per tirare avanti la famiglia e mantenere una vita decorosa per i propri figli? Pensateci, fa riflettere. E in tutto questo, i figli, cosa restituiscono? Pochissimo, in molti casi nemmeno i buoni voti a scuola, il minimo indispensabile.
Ma non tiriamo in mezzo la società e i tempi che cambiano: ci sono sempre stati figli che hanno ucciso il padre e la madre, e senza neppure scomodare Edipo. La cronaca ci ricorda il caso di Pietro Maso, che nel 1991 ammazzò i genitori nella loro casa in provincia di Verona. Questione di soldi e di bella vita. E la cronaca ci ricorda persino il caso di Erika e Omar, nel 2001, a Novi Ligure: la ragazza uccise la madre e il fratellino. E potremmo continuare con molte altre tragiche storie, dalla famiglia Carretta in poi, prima e dopo….
Non è solo questo brutto mondo ad aver generato figli assassini. Figli assassini lo si è già dentro. Altrimenti non si arriva a commettere follie come quella di Pontelangorino, nelle mie terre, le mie zone, le mie spiagge, il mio mare. E quello di genitori si conferma il lavoro più difficile del mondo: provate a chiederlo a chi ha tre figli, per esempio. Io ne conosco diversi di genitori con tre figli, una cifra già abbondante per le stitiche famiglie di questi tempi. Due figli bravissimi e uno disgraziato. Succede. Spesso. Eppure: gli stessi genitori, la stessa educazione. Gli stessi frutti che non dovrebbero cadere troppo lontani dagli stessi alberi. E allora? Che avesse ragione Lombroso con la sua teoria del “criminale dalla nascita”?.
Difficile dare una risposta ad un quesito così delicato.
Di sicuro, chi commette atti brutali e barbari come l’assassinio dei genitori è un brutto figlio di questo mondo.

figli che uccidono i genitori

ISTANBUL, L’ATTENTATO DI CAPODANNO. E IL 2017 COMINCIA MALE….

Un’altra volta, l’ennesima volta. Un altro atto terroristico, con la firma dello Stato Islamico. La tragedia di Istanbul, dove nel night club “Reina” hanno trovato inaspettatamente la morte 39 persone, ricorda da troppo vicino l’attentato di Parigi, al Bataclan. Un’azione criminale e animale, ai danni di uomini e donne, ragazzi e ragazzi, che in una città sempre più tormentata come Istanbul e in un paese sempre più dilaniato come la Turchia stavano soltanto cercando un refolo di spensieratezza, per qualche ora, nella notte di Capodanno. Nei pochi siti internet non oscurati dal governo turco, ho visto foto raccapriccianti: corpi a terra, uno addosso all’altro, sanguinanti, senza vita, senza pietà, passati in un attimo dall’effimera felicità all’abisso della morte.
Il 2017 è iniziato male, malissimo, con la “solita” strage di innocenti, assassinati in nome di chissà quale Dio, di chissà quale religione, di chissà quale orizzonte virtuoso, di chissà quali interessi….
A colpirmi, però, è stato anche il nostro atteggiamento di noi occidentali: un attentato in Turchia – ormai sono tanti, all’ordine del giorno – non vale lo stesso effetto emotivo di un attentato a Parigi, a Bruxelles e a Berlino. Purtroppo, l’assuefazione – anche al peggio – esiste e noi ci siamo incredibilmente abituando al peggio. Ma, terribile a dirsi, non sono in pochi quelli che pensano che la Turchia paghi a caro prezzo la propria ambiguità politica, il proprio atteggiamento voltagabbana in Siria, prima contro Assad e Putin, ora al fianco del dittatore siriano e dello Zar di Mosca, insieme contro i “ribelli” che voglio scacciare Assad, dalla devastata Aleppo come dal resto del paese. E poi ci sono gli oppositori interni, i curdi...ma che colpe hanno i poveri uomini, donne, ragazzi e ragazze del “Reina” se Erdogan combina tutto e il contrario di tutto, auto-colpo di stato compreso? Ormai la Turchia, lo dice chi ci vive e chi non ci vuole più vivere, è diventato un luogo pericoloso. E non solo per colpa del terrorismo. Da una Turchia europea, ad un passo dall’ingresso nell’Europa Unita, fino ad una Turchia integralista e ben poco integrata in quella porzione di Europa che si affaccia all’Asia, e viceversa. Ma turchia-istanbul_attackil vero problema, oltre ai folli killer reclutati dall’Isis in giro per il mondo, Cina inclusa, sono i Grandi della Terra: da questa parte del mondo, oltre al Califfo, banchettano solo i già citati Erdogan e Putin, con un clamoroso doppio vuoto: quello lasciato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Confidando ben poco nel nostro Vecchio Continente troppo preso dalle sue beghe finanziarie, ci rimane solo una speranza: quella del nuovo presidente americano Donald Trump. E va a finire che dobbiamo sperare che sia lui (insieme all’amico Putin?) a risolvere una volta per tutte il problema Medio-Oriente. La vedo francamente dura, anche per Trump, l’Uomo Forte. Ma qualcosa bisogna pur farlo, per impedire altri Bataclan, altri Reina e chissà quanto sangue ancora innocente….

La follia umana ci ha tolto il sorriso di Fabrizia.

Non ci sono parole per esprimere la disperazione della famiglia di Fabrizia Di Lorenzo, alla notizia dell’attentato del camion assassino al mercatino di Natale di Berlino. La ragazza, originaria di Sulmona (L’Aquila), aveva studiato e lavorava in Germania, uno dei tanti “cervelli in fuga” dall’Italia per bisogno di lavorare, di sopravvivere, di vivere. Ma quella sua voglia di vivere, quel suo sorriso, è stato spento per sempre dalla follia umana. Non è l’ultima e non sarà la prima vittima del fanatismo. Cerchiamo di non dimenticarla troppo in fretta. Cerchiamo di fare qualcosa per fermare questa ondata di odio disumano. fabrizia-di-lorenzo-dispersa-berlino_20152016

LUDOPATIA: LA VITA DI TUTTI I GIORNI E’ UNA TENTAZIONE 

Attorno all’8 dicembre, dunque già in clima festaiolo, sono stato per lavoro al Casinò di Saint Vincent, uno dei quattro casinò esistenti in Italia (gli altri sono a Venezia, Sanremo e Campione d’Italia), tutti di proprietà pubblica, attraverso lo stato o le regioni. Se avessi avuto ancora qualche dubbio sul fatto che fossero proprio i casinò il “paradiso del vizio” del gioco, mi sono dovuto ricredere. Sono tra le strutture “del divertimento” più controllate che ci possano essere, cosa che non possiamo certo dire per altri piccoli templi del gioco d’azzardo, peraltro assolutamente regolari e autorizzati, come le sale giochi con slot machine e, addirittura, i bar sotto casa con un paio di macchinette infernali. Per non parlare del boom del gioco d’azzardo on line. Sono questi, la sale giochi, i bar dietro l’angolo, i casinò virtuali le vere rovine per molti, troppi giocatori dilettanti che perdono, però, come dei professionisti. Dei veri e proprio “malati di gioco”. Una vera e propria (e pericolosa) dipendenza comportamentale, capace di sfociare in ludopatia, un disturbo ossessivo-compulsivo legato alla necessità impellente, spasmodica, irresistibile di giocare. A tal punto da dover ricorrere a vere e proprie terapie d’urto, persino presso i Sert, i servizi delle aziende sanitarie pubbliche dedicate (in alcune regioni d’Italia) alle dipendenze patologiche: non solo droghe sotto forma di sostanze stupefacenti, quindi, la droga sotto forma di ore e ore passate a giocare alle slot machine, ai videopoker o ai casinò on line su internet. In confronto, il vecchio casinò caro a James Bond e ad intere generazioni di “giocatori controllati” è diventato ormai un luogo per educande. Con i soldi da spendere, certo, ma pur sempre da educande. Il fascino di questi casinò vecchia maniera, peraltro, è decisamente in calo: ormai nemmeno a St.Vincent richiedono la giacca obbligatoria per entrare, al casinò di Venezia Cà Noghera – quello meno chic, vicino all’aeroporto di Tessera, che fa comunque parte dello stessa stessa struttura dello storico casinò di Venezia Lido – si incontrano ormai soltanto giovani cinesi in pullover dai coloro improbabili, ma con in mano mazzette ricolma di pezzi da 500 euro. Del resto, la crisi che ha colpito i casinò impone di non fare più gli schizzinosi: via libera a tutti, comprese intere comitive di pensionati arrivati con la corriera e pronti per invadere le centinaia e centinaia di slot machine all’interno dei saloni. Poi, ognuno si diverte come può e come crede. Ma non è un caso che i leggendari tavoli verdi del black jack o di altri giochi (io, al massimo, investo venti euro nella roulette del rosso e nero: almeno ho un 50% di possibilità di vincere: ma becco sempre l’altro 50%…) siano ormai spesso deserti e i croupier disoccupati, in attesa di una clientela di veri giocatori che si fa sempre più rara e introvabile. Ormai andare al casino è una gita, è una serata diversa dal solito, non è più per andare a sbancare e per “fare i soldi”.
Il direttore commerciale del Saint Vincent Resort & Casinò, Marco Fiore, da 35 anni è testimone dei cambiamenti epocali del gioco d’azzardo e ci spiega. “Noi casinò siamo controllatissimi. L’ingresso è gratuito, ma siamo costretti per legge a registrare tutti i clienti che entrano al casinò. E succede spesso di doverne respingere qualcuno, se la famiglia ci ha contattati per evitare che il loro parente continui a rovinarsi con il gioco. In quel caso la segnalazione è estesa a tutti i casinò e il giocatore non può più entrare da nessuna parte. Crediamo di fare un favore e lui stesso e alla famiglia. Ma a volte accadono situazioni spiacevoli…è chiaro che se il giocatore in questione non può più entrare in nessun casinò d’Italia, o va all’estero oppure si accontenta dei surrogati: le sale da gioco, i bar con i videopoker, internet. E lì non ci sono esattamente gli stessi controlli….”.
E’ evidente, quindi, che il baricentro del rischio si è spostato dai casinò alle strutture periferiche, dove minori sono i controlli e maggiore è il “mucchio selvaggio” dei potenziali giocatori: per andare al casinò, infatti, bisogna prendere l’auto, fare centinaia di chilometri, prenotare un albergo, troppo complicato per i giocatori che si credono “occasionali”. Per divertirsi – e magari vincere qualcosa, pensano – può andare benissimo anche un sito internet, comodamente da casa, oppure la sala giochi nella piazza del paese o persino il bar Sport dietro l’angolo, con due belle slot machine di quelle che per vincere devi tirare la manovella e sperare in un tris di ciliegie. Si assottiglia il pacchetto dei giocatori da casinò, si ingrossano le fila dei giocatori “occasionali”: operai alla fine del turno, pensionati che ammazzano il tempo, casalinghe che uccidono la noia. Il vizio del gioco è trasversale, senza limiti di età e barriere sociali, al Nord come al Sud. E tutti corrono il rischio di rovinarsi, se stessi e le loro famiglie. Per lavoro ho intervistato diversi ex giocatori che hanno iniziato proprio  cosi, giocando ogni tanto, con piccole perdite, un po’ di moneta, poi dieci, venti, cinquanta euro. Tutti convinti, come i fumatori, di riuscire a smettere quando vogliono. E invece…. E invece poi finiscono nei gruppi di “giocatori anonimi”, sedute psicologiche per curarsi, per uscire dal tunnel, proprio come chi è alcolizzato o tossicodipendente. Mandando in frantumi non solo i propri conti correnti, ma anche i propri affetti: matrimoni spezzati, famiglie devastate, amicizie dimenticate. E tutto per un qualcosa, il gioco d’azzardo “casalingo”, assolutamente legale, dove addirittura lo Stato ci guadagna, eccome. Per non parlare poi delle scommesse, ma quello è un altro mondo.
Lungi da noi l’idea di voler demonizzare tutto il mondo del gioco d’azzardo a 360 gradi, ma è evidente che i controlli di garanzia (e di tutela dei giocatori) che spettano ai casinò debbono essere estesi anche agli altri luoghi a rischio: le sale giochi, i bar con i videopoker, internet, le stesse sale scommesse. E non basta che lo Stato cerchi di tamponare con le ordinanze di un sindaco qua e uno di là sul fatto che la sala giochi deve essere a più di cento metri di distanza dalla scuola. Magari, poi, è troppo vicina ad un centro anziani, e il rischio è ancora maggiore….
Servono maggiori controlli, tanto per cominciare. Tanto per non crescere una generazione di “malati di gioco”. E nel frattempo, non possiamo che sperare – difficile, ma non impossibile – che i giocatori occasionali diventati incalliti scoprano un qualche divertimentoludopatia più sano e più consapevole.