Grazie a lui la musica è diventata più democratica e alla portata di tutti e soprattutto è uscita dalle case potendo essere trasportata in una magica “scatoletta” di plastica che poteva entrare nella tasca di una giacca. E’ morto a 94 anni l’ingegnere olandese Lou Ottens, rivoluzionario inventore negli anni ’60 delle musicassette di cui sono stati vendute più di 100 miliardi di esemplari in questi anni.
Secondo i media olandesi che annunciano la notizia, Ottens è morto nella sua casa di Duizel sabato. In seguito come direttore tecnico della Philips a fine anni ’70, Ottens prese parte anche allo sviluppo del compact disc. “Tradendo” di fatto la sua invenzione che, sparita da tempo, potrebbe rivivere presto una “seconda giovinezza”.
Astor Piazzolla, i 100 anni di vita del tango “alla Piazzolla”
Articolo di Massimo Scapin
Cento anni fa, l’11 marzo 1921, nasceva il maggiore musicista dell’Argentina della seconda metà del secolo scorso: Astor Piazzolla.
In Argentina era nato a Mar del Plata da genitori italiani (il padre di Trani in Puglia, la madre della Garfagnana in Toscana) ed è morto il 4 luglio del 1992 a Buenos Aires. Divenuto famoso come uno dei massimi esecutori di tango, anzi come elaboratore del nuevo tango, egli è stato in realtà un musicista attento a ogni tipo di musica, lasciando circa 600 opere di vario genere di una grande comunicativa, tra cui l’opera María de Buenos Aires (1967), l’oratorio El pueblo joven (1973), il Concerto per bandoneon e orchestra (1979), la colonna sonora del film Enrico IV di M. Bellocchio (1984).
Il nuevo tango, in cui il nostro bandoneonista argentino inserisce armonie impreviste, dissonanze, improvvisazione, contrappunto, riesce inviso ai musicisti e a parte del pubblico tradizionali. Durante un’intervista del 1954 Piazzolla dichiara: «Sì, è sicuro, sono un nemico del tango; ma del tango come lo intendono loro. […] Se tutto è cambiato, deve cambiare anche la musica di Buenos Aires. Siamo molti a voler cambiare il tango, ma questi signori che mi attaccano non lo capiscono né lo capiranno mai. Io vado avanti, senza considerarli» (D. Piazzolla, Astor, Emecé Editores, Buenos Aires 1987, p. 159).
La popolare danza a coppie, a ritmo binario e movimento moderato, spesso accelerato verso la fine, giunta in Europa dai sobborghi di Buenos Aires in Argentina, grazie a Piazzolla ha ottenuto una propria dignità artistica. Di essa si occupò anche il papa san Pio X (1835-1914). Il Pontefice, «flagello dei modernisti», revocò le interdizioni richieste dalle autorità ecclesiastiche della «città dei Lumi», che ritenevano «la danza d’importazione straniera, conosciuta con il nome di tango», secondo la condanna del cardinale Léon Adolph Amette, Arcivescovo di Parigi, «per sua natura lasciva e offensiva per la morale» (ne Le Mercure Musical, 1 febbraio 1914, p. 47). Si narra che nel gennaio 1914, dopo aver assistito in Vaticano a un’esibizione riservata di «tango romano (ampiamente castigato, rispetto a quello argentino)», avesse commentato: «È tempo di feste e capisco come e quanto i giovani amino ballare. Ma perché adottare quelle ridicole contorsioni barbare dei Negri e degli Indiani? Perché non preferire piuttosto la bella danza di Venezia, elegante, graziosa e latina, la furlana?» (Civitas Christiana nn. 10-13, agosto 1997-marzo 1998, Verona, p. 89).
L’aneddoto – non sappiamo quanto fondato – scatenò l’ironia di Trilussa (1871-1950), er poeta de Roma – di cui ci siamo occupati qui -, che il 1° febbraio 1914 scrisse nel malizioso sonetto Tango e Furlana: «Er Papa nun vo’ er Tango perché, spesso, / er cavajere spigne e se strufina / sopra la panza de la ballerina / che su per giù, se regola lo stesso. // Invece la Furlana è più carina: / la donna balla, l’omo je va appresso, / e l’unico contatto chè permesso / se basa sur de dietro de la schina. // Ma un ballo ch’è der secolo passato / co’ le veste attillate se fa male: / e er Papa, a questo, mica cià pensato; // come voi che se movino? Nun resta / che la Curia permetta in via speciale, / che le signore s’arsino la vesta» (Trilussa, Tutte le poesie, Mondadori, 1954, pag. 390).
Tornando all’argomento dopo questa digressione, diremo che Astor Piazzolla, battezzato e cresciuto nella fede, nel 1968 si definiva «cattolico ma non troppo». Nel 1976 incontra la cantante e presentatrice televisiva Laura Escalada e la sposa in seconde nozze nel 1988. In quel periodo il nostro musicista divenne un cattolico più fervente. Nel 1980 dichiarava: «Sono cattolico. Credo in Dio e lo prego in inglese. Mi piace anche entrare in chiesa. È come disintossicarmi. È come fare un bagno di pace» (M. S. Azzi & S. Collier, Le grand tango: the life and music of Astor Piazzolla, Oxford University Press 2000, pp. 139-140).
Nell’ultima parte della sua vita, Astor è visto come «un uomo dalla fede toccante», molto pio, che si reca in pellegrinaggio annuale al Santuario nazionale di Luján, dedicato alla Madre di Dio, dove l’immagine benedetta di Maria – cara ai papi Urbano VIII, Clemente XI, Leone XIII, Pio XI, Pio XII e Giovanni Paolo II – dal 1630 accoglie maternamente quanti le si accostano per implorare la sua protezione. La cosiddetta «medaglia miracolosa», coniata dopo le apparizioni – nel 1830 in rue du Bac, a Parigi – della Madonna a santa Caterina Labouré (1806-1876), ebbe il nostro musicista tra i suoi devoti. Egli spesso regalava ai suoi amici medaglie, stampe della Vergine e boccette d’acqua santa, raccolte nei suoi viaggi in Europa (cfr. M. S. Azzi & S. Collier, ibidem).
Un pezzo che esprime la profonda religiosità del compositore argentino può considerarsi la sua Ave Maria. Fu scritta per oboe e pianoforte nel 1984 con il titolo Tanti anni prima per il film Enrico IV, dall’omonima commedia di Luigi Pirandello, di Marco Bellocchio, in cui era il tema di Matilde, impersonata da Claudia Cardinale che vi lavorava insieme a Marcello Mastroianni. Poco prima di morire, con la raccomandazione di eseguirla al momento giusto, Piazzolla donò questa Ave Maria alla cantante Milva, sua amica dal 1981, che l’ha proposta al pubblico mondiale nell’ambito del Grande Giubileo del 2000.
Winston Churchill, che pittore!
“Molte persone non sanno nemmeno che Churchill dipingesse e, infatti, era un artista dilettante e dipingeva come passatempo. Ha dipinto oltre 500 opere a olio e questo quadro è una particolare rarità, perché è l’unico dipinto che Churchill ha prodotto durante tutta la Seconda Guerra Mondiale”.
L’ultima proprietaria è stata una certa Angelina Jolie…

L’anno che ci invecchiò di colpo
di Marcello Veneziani
Come riassumere in una sola immagine, in un solo pensiero, quasi in un’epigrafe storica per i posteri il senso dell’anno trascorso sotto la pandemia? In sintesi: fu l’anno che ci invecchiò di colpo. Nell’arco che va da marzo scorso a oggi, siamo invecchiati tutti più in fretta; donne, vecchi e bambini, giovani e adulti, in ogni parte del mondo.
Abbiamo vissuto un anno da vecchi, con una mezza tregua estiva. Stando reclusi in casa, vivendo da pensionati, da cagionevoli, da convalescenti, distanti da tutti, isolati dagli altri, al riparo dal mondo; abbiamo curato la nostra sopravvivenza vivendo meno, non lavorando, non uscendo, non viaggiando, non rischiando. Abbiamo patito la lontananza dai corpi, la diffidenza dei corpi, come accade ai vecchi che dai corpi si allontanano e del proprio corpo sono costretti a fidarsi sempre meno. Come succede ai vecchi abbiamo anteposto a tutto la salute; salviamo la pelle, a ogni costo. Molti vecchi sono morti a causa della pandemia ma il mondo non è diventato più giovane, anzi si è caricato della vecchiaia deceduta, ne ha ereditato la senilità.
Siamo stati sempre più spettatori, sempre meno attori, abbiamo vissuto la vita degli altri, a volte la morte; incollati al video e alle mansioni domestiche, alla vita stanziale e ospedaliera, alle mascherine e ai vaccini. Atrofizzati, in quiescenza forzata e anticipata, senza le consolazioni previste per i pensionati: viaggiare, conoscere altri luoghi, frequentare corsi, teatri e lezioni. O perlomeno godersi figli e nipoti; ci è stato al contrario intimato di starne alla larga. Si è ridotta per tutti la facoltà di giocare.
A questo si aggiungono le diete saltate per la cattività, le pinguedini da vita domestica per compensare le privazioni; i mancati controlli medici, il rinvio di cure per timore degli ospedali, la vita trasandata perché domestica e asociale; più gli strascichi maniaco-depressivi per la pandemia e il terrore organizzato per tenerci sotto scacco. Tutto questo ha contribuito a invecchiarci, nel fisico e nella mente. È stato un corso planetario d’invecchiamento globale.
Perfino gli adolescenti sono invecchiati di colpo sotto la pandemia: se a un ragazzo non lo mandi a scuola, lo separi dagli amici, reputi ogni comitiva un’adunata sediziosa, gli proibisci di stare all’aperto, viaggiare, andare per strada o fare movida, gli imponi di vivere da anziano con un corpo di giovane e pulsioni di giovane. Così hai diminuito i rischi di contagio ma hai accelerato l’invecchiamento di tutte le sue cellule, anche quelle spirituali.
Un anno così ci ha reso più vecchi nel corpo e nello spirito; nell’umore non ne parliamo. Ed è questo il primo, grande danno biologico che abbiamo patito in massa e che va ben oltre i danni del virus, i ricoveri e i decessi; ma va anche oltre i danni sociali ed economici, tra chiusure e lockdown. C’è un danno esistenziale da cui non ci riprenderemo facilmente, ammesso che possiamo parlare di ripresa, come se il peggio sia davvero passato.
Il problema si aggrava in particolare da noi: qui la vecchiaia dell’Occidente si aggrava. Eravamo già una società di vecchi, l’Italia è un paese con un’età media sbilanciata verso la senilità, la popolazione dei pensionati ha quasi raggiunto quella dei lavoratori; in giro è una processione di teste bianche, brizzolate, pelate. Ha piovuto sul bagnato, una società già senile, invecchia di colpo dopo un anno di convalescenza preventiva allo scopo di evitare la malattia. Anche a volersene fregare delle disposizioni, aggirare i divieti, le cose non cambiano: in un mondo chiuso non puoi vivere all’aperto, non hai luoghi, compagni, locali, situazioni in cui esercitare la libertà e godere la vita a piede libero. La sera, poi, è diventata un mortorio.
Resta sempre sullo sfondo un interrogativo che preferiamo rimuovere: siamo sicuri che senza lockdown sarebbe stata la catastrofe, e non piuttosto la mezza catastrofe che abbiamo comunque patito? Se si fossero adottate precauzioni e sanificazioni, distanziamenti, mascherine, divieti di assembramento ma senza alcuna chiusura né arresti domiciliari, sarebbe andata peggio? Non abbiamo termini veri di paragone per dirlo o per smentirlo. Nessuno di noi si sente di spingere fino in fondo questa riflessione, perché c’è il timore di ferire, di apparire incoscienti, di fare i superuomini con la vita degli altri.
Ma non si tratta di immaginare i “se”, bensì di affrontare gli effetti di quest’anno coatto: come si risale la china della vecchiaia, come si supera la visione sanitaria della vita, il marasma senile; con quale elisir recupereremo l’età rubata? Come restituire, non dirò i giorni perduti ma l’energia repressa e depressa per poter recuperare e risorgere (la resilienza, per far godere i pappagalli ammaestrati).
Ci vorrebbe un nuovo risorgimento questa volta biologico, personale e comunitario. Ma non ne abbiamo lo spirito. Al mio paese c’era un circolo che si chiamava Risorgimento, in omaggio all’amor patrio; ma era frequentato da vecchi col bastone e l’orologio a cipolla nel taschino, i colletti inamidati e gli acciacchi raccontati a ogni giro di scopone e a ogni conversazione, punteggiata da attacchi catarrosi. Più che Risorgimento era Decadimento.
Chiamavano Risorgimento il circolo vizioso del loro declino, il racconto reciproco dei rispettivi malanni, la complicità dei ricordi e delle amnesie, l’appello dei defunti e del tempo andato. Ero bambino e mi aggiravo tra loro come in un parco archeologico di animali preistorici. Ora mi sembra di essere tornato a quel tempo, con la differenza di far parte anch’io del parco dei superstiti; e invocare, come loro, il Risorgimento al sorgere della senilità. Abbiamo perso quasi un anno di vita, e in un anno dieci.
Ciao, Fausto Gresini: corri forte, Lassù…
Aveva solo 60 anni, ma anche due titoli di campione del mondo da motociclista (1985.1987, nella classe 125) in bacheca e altri quattro da team manager.
Se n’è andato troppo presto, Fausto Gresini. Il Covid e le complicanzioni dovute ad un’emorragia celebrale se lo sono portato via.
Era ricoverato da fine dicembre in ospedale a Bologna e la famiglia continuava a dire: “Non ha mai avuto problemi di salute prima”, come cupo avvertimento ai presunti negazionisti del virus.
Il destino tragico, però, aveva già incrociato la strada di Fausto Gresini: con la morte di Daijiro Kato, scomparso a 26 anni su un muro di Suzuka (2003) in sella a una Honda del suo team e con la tragedia di Marco Simoncelli, volato via in una curva maledetta a Sepang (2011), anche lui su una Honda della scuderia del manager imolese. Ora, il fato è stato crudele proprio con lui, e senza nemmeno bisogno di un muro o di una curva maledetta, che durante le sue corse Gresini aveva sempre saputo sfidare e domare.
Tutti coloro che lo hanno conosciuto bene raccontano di un Fausto Gresini uomo d’altri tempi, una stretta di mano e via, valeva più di un contratto, amicizie senza tempo (come con Loris Capirossi, prima rivale in pista e poi amico vero), tanti progetti che – ora – sarà la famiglia, come ha annunciato, a portare avanti. Ma Gresini ci mancherà, e non soltanto agli appassionatissimi di moto, per la sua semplicità, per la sua intraprendenza, per la sua voglia di aiutare gli altri, in un mondo dominato dalla velocità, dalla tecnologia e dalla poca umanità.
Lui, in effetti, rappresentava una straordinaria eccezione alla regola.

Aston Martin e Formula 1: un affare per tutti
Gli occhi di tutti gli appassionati di Formula 1, domenica 28 marzo, al via del Mondiale 2021, con il GP del Bahrein, saranno puntati sul nuovissimo team Aston Martin.
Per il prestigioso marchio britannico è un ritorno alla F.1 ben 61 anni dopo l’ultima volta (senza grandi risultati). Tutto merito del miliardario canadese Lawrence Stroll (ha fatto fortuna con marchi glamour come “Tommy Hilfiger” e “Michael Kors”) che, per garantire un sedile al promettente figlio Lance, si è…comprato l’intera scuderia, la ex Racing Point, di cui era già sponsor. Anzi: si è comprato l’intera Aston Martin. Con il “raccomandato” di famiglia, ci sarà un vecchio leone un po’ spelacchiato, il 33enne Sebastian Vettel, quattro volte campione del mondo, sbolognato in malo modo dalla Ferrari.
Dietro Mercedes, Red Bull e Ferrari, la quarta forza del Mondiale potrebbe essere proprio l’Aston Martin.
“Questo è il nostro obiettivo minimo”, ha dichiarato il Team Principal Otmar Szafnauer, americano di nazionalità, romeno di nascita. Ma al di là di come andranno le cose sui 23 circuiti del Mondiale, l’ingresso del marchio Aston Martin nella Formula 1 è un affare per tutti: per la stessa casa automobilistica e per lo stesso “circus”, gestito da quest’anno dall’ex Direttore Sportivo ferrarista Stefano Domenicali.
Perchè l’Aston Martin è conosciuta nel mondo – a parte per i suoi splendidi modelli – quasi esclusivamente per essere la mitica auto super-accessoriata dei film di James Bond (non in esclusiva, perchè negli ultimi film è stata scalzata dalla Bmw, ma nell’immaginario collettivo la 007-car è sempre l’Aston Martin!) e una notorietà a suon di podi e/o vittorie in Formula 1 rilancerebbe le quotazioni della stessa azienda.
Gli ultimi dati disponibili, riferiti a fine 2019, infatti, parlavano chiaro: le consegne alla clientela erano scese del 9%, mentre i ricavi, in flessione di una pari percentuale, erano calati da 1,096 miliardi di sterline a 997,3 milioni. I dati 2020, nel bel mezzo di una pandemia mondiale, non sono andati molto meglio.
Ecco perchè, in attesa del boom del DBX, il primo Suv-Aston Martin, il rilancio del marchio è legato soprattutto all’operazione di “immagine” globale che offre la Formula 1.

Auto sempre più “esclusivamente elettriche”: lo dicono anche Ford e Jaguar
È l’ultima affermazione del gigante automobilistico per definire i piani e allontanarsi dai motori a combustione interna inquinanti, prima di incombere nel divieto sui veicoli a combustibili fossili.
Da Ford affermano che due-terzi dei suoi veicoli commerciali saranno completamente elettrici (o ibridi) entro il 2030.
Anche Jaguar-Land Rover, gioiello britannico oggi proprietà dell’indiana Tata Motors, ha dichiarato che le sue auto di lusso a marchio Jaguar saranno esclusivamente elettriche entro il 2025. Non ci saranno più veicoli a benzina, quindi, a partire dalla metà di questo decennio.
Anche General Motors – che ha dovuto chiudere temporaneamente diversi stabilimenti in Usa, Messico e Canada per mancanza di chip – punta ad avere una gamma a emissioni Zero entro il 2035.
Il Regno Unito, intanto, ha annunciato il divieto di vendita di auto e furgoni nuovi alimentati interamente a benzina e diesel a partire dal 2030.
